Debito USA: vincitori e vinti

Alla fine, un accordo sul debito tra il Presidente Biden e i repubblicani che controllano la Camera dei Rappresentanti è stato trovato. Come, e forse più, che in passato si è giunti davvero vicini all’abisso del default. Con non pochi mugugni, il Congresso ha però approvato l’aumento del tetto del debito o, meglio, lo ha sospeso fino al gennaio 2025, permettendo al Tesoro di emettere nei prossimi due anni il debito necessario per garantire la copertura di programmi di spesa già previsti. 

Quali sono i termini essenziali dell’accordo? Vi sono vincitori politici? E quale potrebbe essere l’impatto sull’economia e la politica statunitensi?

I termini dell’accordo: le concessioni di Biden

L’accordo prevede una sospensione del tetto del debito fino al gennaio del 2025, dopo le elezioni del 5 novembre 2024Non si precisa un altro tetto (per i repubblicani sarebbe stata una sconfitta simbolica), ma si giungerà a una sua nuova definizione alla scadenza della sospensione, più elevata ovviamente degli attuali 31mila e 600 miliardi, di poco sotto il 120% del Pil. 

Biden offre diverse contropartite ai repubblicaniCon l’eccezione di quella militare, che continua ad aumentare, sono fissati dei limiti alla spesa “discrezionale”, che include tutte quelle voci non relative a previdenza, sanità e interessi sul debito. Si prevede che questa spesa rimarrà invariata il prossimo anno e potrà aumentare solo dell’1% nel 2025. Con gli attuali tassi d’inflazione si tratta ovviamente di una riduzione della spesa, anche se non è ancora chiarissimo quali saranno gli effetti di medio periodo. Le stime del Congressional Budget Office – rigorose nell’elaborazione, ma inevitabilmente aleatorie nelle previsioni – indicano un risparmio potenziale tra i 1.300 e i 1.500 miliardi nel prossimo decennio. 

I repubblicani ottengono quattro altre concessioni. La prima riguarda il taglio dell’aumento del finanziamento dell’Internal Revenue Service (IRS) – l’agenzia federale responsabile per la riscossione delle tasse – previsto dall’Amministrazione Biden. Si tratta di una riduzione minore di quella prevista, ma che offre sulla carta un successo simbolico, in quanto colpisce un’istituzione odiata da larga parte dell’elettorato conservatore, che la rappresenta da tempo come strumento dell’autoritario e invasivo potere federale. 

La seconda concessione è l’imposizione dell’obbligo di lavoro, o di seguire dei corsi di formazione professionale, per i percettori di determinati tipi di aiuti federali destinati a chi ha redditi sotto la soglia della povertà. Questi work requirements sono ora estesi anche a una fascia di età, 50-54 anni, che prima era esclusa in quanto l’obbligo si fermava ai 49 anni di età.

Terzo, s’introducono elementi per accelerare e snellire le verifiche di fattibilità ambientale per progetti di sviluppo energetico relativi sia a fonti fossili tradizionali sia a rinnovabili. Nel farlo si autorizza la costruzione di un gasdotto che collega la West Virginia alla Virginia: un progetto, questo, sospeso per il suo impatto ambientale, osteggiato da gruppi ecologisti e dalla sinistra democratica, ma richiesto da tempo sia dai repubblicani sia dal potente senatore democratico della West Virginia, Joe Manchin. Infine, non vi sono nuove tasse su grandi ricchezze e redditi alti, come richiesto da molti democratici e dallo stesso Presidente. 

Vittoria dei repubblicani? Non proprio

A prima vista, i repubblicani sembrerebbero avere ottenuto molto. Così in realtà non è. Le concessioni da parte di Biden ci sono state, come è inevitabile che sia in un compromesso di questa portata. I loro termini sono però assai distanti dalle iniziali richieste del partito repubblicano. Al suo interno forti sono stati i malumori, manifestatisi anche con le numerose defezioni nel voto alla Camera, dove ben 71 rappresentanti repubblicani (quasi un terzo dei 220 totali) hanno votato contro l’accordo, che è quindi passato solo grazie ai voti democratici.

Lo vediamo bene nella comparazione con l’accordo del 2011, quando l’allora Amministrazione Obama fece concessioni molto più significative. Oggi il debito viene solo sospeso, si fissano tetti di spesa tutto sommato contenuti, ci si limita a una prospettiva di appena due anni, laddove le iniziali proposte repubblicane chiedevano di definire vincoli per tutto il prossimo decennio. Se l’obiettivo degli avversari di Biden era d’imporre una nuova austerity e di rovesciare alcune delle politiche più importanti adottate dalla sua Amministrazione, difficilmente possiamo dire che esso sia stato raggiunto. 

La misura sull’IRS ha, lo si diceva, una valenza precipuamente simbolica, per quanto politicamente significativa. L’agenzia viene comunque rafforzata. L’estensione dei work requirements è ferocemente osteggiata dalla sinistra del Partito Democratico, ma non delinea in alcun modo il radicale smantellamento del (debole) stato sociale statunitenseEscludendo quella per la Difesa, la spesa “discrezionale” non supera il 15% di quella totale. Con l’inflazione attuale, vi sarà evidentemente una sua riduzione nel biennio 2024-2025, ma questa deve essere misurata contro la significativa crescita della stessa negli ultimi anni, in conseguenza della (e in risposta alla) emergenza pandemica, ma anche delle espansive politiche di bilancio di Biden (e, prima ancora, di quelle di Trump): il deficit è stato il 14% del Pil nel 2021 e circa il 5,5% nel 2022il debito pubblico è sceso dal picco del 134% rispetto al Pil del secondo trimestre del 2020, ma continua a collocarsi attorno al 120%, praticamente il doppio rispetto a quindici anni fa, quando iniziava la grande crisi del 2007-2009. 

Si tratta quindi di un compromesso da cui pare uscire vincitore soprattutto Biden. Che aveva a lungo promesso di non essere disposto a mercanteggiare sull’aumento del debito, è vero. Ma che ha obbligato la controparte a rinunciare a molte richieste considerate non negoziabili; ha visto la stessa dividersi una volta ancora, con un fronte tutt’altro che limitato di membri del Congresso più radicali assai critici nei confronti della leadership dello speaker della Camera Kevin McCarthy; e che è riuscito, a dispetto di tutto, a preservare l’unità e la coesione dei democratici. Un aspetto, quest’ultimo, a volte sottovalutato e che costituisce invece uno dei meriti più importanti di un Presidente capace di imporre grande disciplina al suo partito così come alla sua Amministrazione.  

Rispetto alle implicazioni politiche del compromesso, si possono fare due altre considerazioni. La prima è che a lungo la contesa è stata su chi avrebbe avuto in mano il cerino dell’eventuale default. Una prospettiva non contemplabile per i riverberi che avrebbe avuto sull’economia statunitense e su quella globale. E nondimeno una prospettiva possibile, primariamente a causa della natura sempre più polarizzata e disfunzionale della politica statunitense. È questa disfunzionalità, oggi, una delle variabili potenzialmente più pericolose per una stabilità globale che dipende tantissimo dalle scelte e dalle politiche degli USA

La seconda è che, dopo anni di imponenti spese pubbliche e aperta contestazione delle logiche se non della stessa filosofia dei processi d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo, le parole d’ordine dell’austerity, del rigore e dell’equilibrio di bilancio hanno perso gran parte della loro attrattività e spendibilità politica. In un Paese assuefatto ad alti deficit e crescente spesa pubblica, gli inviti alla responsabilità fiscale hanno meno presa (e legittimità) rispetto a un passato in fondo non troppo lontano. Un aspetto, questo, che in una certa misura ha fatto il gioco di Biden. E che spiega anche perché da parte repubblicana si è dovuto puntare su altri elementi – l’IRS come simbolo del dispotico potere federale, il welfare come antitesi dell’etica del lavoro e della responsabilità – per giustificare la propria posizione e le proprie proposte. Il tutto in un contesto di altissima polarizzazione e bassissima mobilità politica, tanto di convinzioni quanto di voti; nel quale i due elettorati sono schierati su posizioni vieppiù impermeabili e fisse.

Conseguenze per l’economia e Presidenziali 2024

Difficile fare previsioni, se non che questa (limitata) contrazione della spesa pubblica potrebbe contribuire al rallentamento dell’economia statunitense. Che molto, moltissimo, ha corso negli ultimi due anni. Con alti tassi di crescita, impressionante capacità di creare lavoro, una disoccupazione che ha raggiunto la percentuale più bassa (il 3,4%) dal 1969 a oggi, una buona capacità di generare lavori ben retribuiti, invertendo quella curva delle diseguaglianze di reddito che a lungo ha contraddistinto la società statunitense. Ma anche con un’alta inflazione che erode il potere di acquisto e obbliga la FED a usare aggressivamente la leva dei tassi per cercare di riportarla sotto controllo. 

Una contrazione economica, se non una vera e propria recessione, appare inevitabile e, pur con tutti i limiti precedentemente illustrati, l’accordo sul tetto del debito sembra spingere anch’esso in quella direzione. Biden ha fatto di tutto per evitarlo, ovvero per procrastinare il momento di raffreddamento dell’economia statunitense, portandolo il più possibile vicino al voto del novembre 2024 per mitigarne il possibile effetto elettorale. Tradizione e statistica vogliono che una recessione possa avere un impatto sulle scelte degli elettori laddove i suoi effetti siano pienamente percepiti da chi si reca alle urne; e che affinché ciò accada, debba avviarsi almeno 10/12 mesi prima del voto (anche il contrario è vero: nel 1992 l’economia era in chiara ripresa, ma George Bush fu comunque punito per la recessione dell’anno precedente). È una regola che però sembra valere meno nell’America divisa e polarizzata di oggi

It’s the economy, stupid!” era lo slogan coniato proprio nel 1992 da James Carville, uno dei responsabili della campagna elettorale di Bill Clinton, per sottolineare come gli americani votassero in modo pragmatico sulla base dei loro interessi materiali (e quindi sullo stato dell’economia). Trent’anni più tardi quello slogan non pare davvero più applicabile. Lo mostrano mille indicatori e sondaggi, che evidenziano come la percezione della propria condizione economica muti al mutare del partito che sta alla Casa Bianca. Lo evidenzia la propensione sempre più accentuata a votare straight-ticket: candidati dello stesso partito per tutte le cariche su cui gli elettori sono chiamati a pronunciarsi in ogni ciclo elettorale. E nel ciclo continuo di una politica tritacarne, anche il tema del tetto del debito è destinato a uscire rapidamente dai riflettori, come entrambe le parti forse desideravano.

ISPI, 9 giugno 2023 (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/debito-usa-vincitori-e-vinti-131038)

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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