La nuova incriminazione di Donald Trump

La si attendeva, questa seconda incriminazione di Donald Trump. Ma è stata comunque scioccante. Per i tanti dettagli rivelati. Per i numerosi capi d’imputazione, che vanno dalla violazione della legge sullo spionaggio (l’Espionage Act del 1917) alla cospirazione per ostacolare l’indagine all’occultamento di documenti alla falsa testimonianza. Per quel che evidenzia una volta di più su Donald Trump e, di riflesso, sullo stato problematico della democrazia statunitense.

La vicenda è nota. Una volta lasciata la Casa Bianca, Trump non ha trasferito agli Archivi Nazionali centinaia di documenti sensibili come la legge gli imponeva di fare. Li ha trasferiti nella sua residenza privata in Florida, stivandoli un po’ dove capitava – finanche in un bagno – ed esibendoli talora ai suoi ospiti (che non avevano ovviamente l’autorizzazione per vederli). Sollecitato a restituirli, ha fatto resistenza, poi ne ha ridati una parte sostenendo che fossero la totalità e obbligando infine l’FBI a perquisire l’abitazione e a recuperare i (tanti) documenti mancanti.

Le motivazioni dell’agire di Trump non sono chiare. Nell’incriminazione viene dettagliato il contenuto di alcuni documenti top secret relativi, ad esempio, a piani statunitensi di azioni militari contro l’Iran o alla natura dell’arsenale nucleare americano. Documenti importanti, secretati e in teoria accessibili solo a pochissime persone, certo. Ma non strumenti d’influenza politica o utili nella campagna elettorale. Ha agito probabilmente una concezione privatistica dell’ufficio presidenziale, che Trump ha spesso teorizzato. O forse l’ex Presidente, e candidato presidenziale, cercava uno scontro con il dipartimento della Giustizia di Biden che lo avrebbe rimesso sotto i riflettori, permettendogli di alimentare quella narrazione vittimista e cospirativa che tanto mobilita la sua base e che forza gli altri repubblicani a solidarizzare con lui. O – nemmeno questo può essere escluso – pensava di accumulare un po’ di cimeli su cui magari lucrare in futuro (a volte dimentichiamo quanto borderline sia stato il Trump imprenditore, con la sua storia di bancarotte e di condanne per truffe, ultima in ordine di tempo quella per la farlocca Trump University).

Qualsiasi sia il motivo, l’incriminazione evidenzia lo stato di estrema difficoltà in cui si trova la democrazia statunitense e i rischi che ne conseguono: per gli Usa, certo, ma anche per il resto del mondo. Questa vicenda è solo l’ultimo sfregio di Trump alle regole democratiche. L’ennesimo, radicale atto di un vandalismo istituzionale che ha costituito, e continua a costituire, la cifra distintiva del suo agire politico. Non sappiamo cosa seguirà, perché si entra in un territorio totalmente ignoto per gli Stati Uniti: mai un ex Presidente, che per giunta aspira a farsi nuovamente eleggere, è stato oggetto di un’incriminazione. Ma parliamo, a volte lo si dimentica, di un ex Presidente che ha promosso un disegno eversivo finalizzato a impedire il riconoscimento del voto nel 2020 e che ha aizzato la folla che assalì il Congresso il 6 gennaio 2021. E allora la doppia, legittima domanda, è come sia stato possibile e cosa ci si debba aspettare. Della crisi della democrazia statunitense e del degrado del discorso pubblico, Trump è stato il prodotto più che la causa, uno degli effetti piuttosto che la matrice. Ha incarnato con fattezze esasperate e caricaturali l’abbruttimento di un confronto politico polarizzato, in cui le due parti non si riconoscono più come legittimi avversari politici, ma si narrano e rappresentano come nemici totali e minacce esistenziali. E nel corpo anziano, spesso obsoleto e in grande sofferenza della repubblica statunitense ha iniettato e continua a iniettare dosi massicce di veleno. A cui si aggiungono ora quelle generate da questa ennesima storiaccia, che infligge una nuova ferita alla democrazia e apre scenari tanto imprevedibili quanto spaventevoli.

Il Giornale di Brescia, 11 giugno 2023

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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