La visita del Segretario del Tesoro Janet Yellen in Cina segue di alcune settimane quella del Segretario di Stato, Antony Blinken. A distanza di poco tempo, due pesi massimi dell’amministrazione Biden sono andati a Pechino per incontrare importanti esponenti dello Stato cinese. Come si spiega questa mano almeno parzialmente tesa di Washington, dopo anni segnati da tensioni e incomprensioni? Ed è possibile una vera distensione tra le due grandi potenze dell’ordine internazionale?
Le spiegazioni sono plurime. Vi è una dimensione strategica, legata alla volontà di non stimolare un ulteriore riavvicinamento della Cina alla Russia ovvero di coinvolgere gradualmente Pechino nel gioco diplomatico che si sviluppa attorno al conflitto ucraino. Vi sono le pressioni, fattesi vieppiù esplicite, di pezzi importanti del mondo imprenditoriale statunitense, preoccupato dagli effetti destabilizzanti di uno scontro Usa-Cina su un’economia globale di suo contestata e in sofferenza, e spesso direttamente coinvolto in catene di produzione nelle quali la Cina svolge ancora un ruolo centrale. Vi è, infine, la consapevolezza pienamente politica che si è giunti a una soglia di rischio assai elevata, con un Congresso e un’opinione pubblica dove sempre più forti e popolari sono posizioni anti-cinesi o, addirittura, sinofobiche, che – se pienamente legittimate – rischiano di alimentare una spirale che potrebbe davvero andare fuori controllo. Solo nell’ultimo anno, i due speaker della Camera – la democratica Nancy Pelosi e il repubblicano Kevin McCarthy – hanno compiuto gesti considerati inaccettabili da Pechino, e criticati dallo stesso dipartimento di Stato, recandosi in visita ufficiale a Taiwan (la prima) e incontrando in California il Presidente taiwanese Tsai ing-Wen (il secondo). Atti, quelli di Pelosi e McCarthy, che rivelano la popolarità bipartisan di una linea critica nei confronti della Cina, la possibilità di capitalizzarla elettoralmente (con la conseguente competizione tra i due partiti nell’invocare maggiore durezza verso Pechino) e le tensioni istituzionali che tutto ciò genera nei rapporti tra il Congresso e l’Esecutivo. Cercare il dialogo diretto serve anche a contenere questo attivismo congressuale e impedire che esso getti ulteriore benzina sul fuoco di una relazione di suo complessa e tesa.
Difficile immaginare svolte radicali o il ritorno della lunga luna di miele tra i due paesi venuta progressivamente meno dopo la crisi del 2008. I termini, e i compromessi, su cui quella luna di miele erano fondati non sono più accettabili (o praticabili) per entrambe le parti. Quello a cui l’amministrazione Biden pare oggi mirare è piuttosto attivare una sorte di canale di comunicazione sempre aperto con cui negoziare accordi e pratiche che disciplinino la competizione, riducano il rischio e salvaguardino in una certa misura i reciproci interessi. Dovrà, questa amministrazione così come quella che seguirà, sostanziare le richieste che vengono dall’elettorato per ridurre l’interdipendenza con la Cina e promuovere politiche di re-industrializzazione, quanto meno in alcuni ambiti. A dispetto degli interessi economici in ballo, e delle tante lobbies che li rappresentano, costrizioni politico-elettorali e nuove visioni strategiche sembrano spingere inesorabilmente verso forme di disaccoppiamento delle due economie, e di questo sembrano essere consapevoli gli stessi cinesi. Come quella di Blinken, anche la missione di Yellen si pone però l’obiettivo di ridurre al minimo i rischi che ne conseguiranno ovvero d’individuare cosa e quanto sia accettabile per entrambe le parti senza scatenare pericolosissime escalation.
Il Giornale di Brescia, 9 luglio 2021
