I 60 anni di “I have a dream”

Si celebrano oggi i sessant’anni di uno dei discorsi più efficaci e importanti della storia statunitense e mondiale: quel “I have a dream” – “ho un sogno” – che il grande leader afroamericano Martin Luther King pronunciò a Washington, al memoriale dedicato ad Abraham Lincoln, davanti a una folle imponente di 250mila persone che quel giorno aveva manifestato in nome del lavoro e della libertà. Il “sogno” di King era che gli Stati Uniti fossero finalmente all’altezza degli impegni assunti alla loro nascita; che l’eguaglianza proclamata nella dichiarazione d’Indipendenza e gli “inalienabili diritti” che essa portava con sé (“vita, libertà e diritto alla felicità”) diventassero finalmente realtà, in particolare per quei milioni di neri che avevano sì ottenuto importantissime conquiste nel decennio precedente, ma continuavano a essere vittime di violenze, discriminazioni oltre che – in una parte del paese – di un regime di segregazione smantellato in alcuni suoi cardini fondamentali, ma che il Sud bianco e razzista cercava di difendere e preservare, spesso ricorrendo alla violenza estrema.

Non fu, quello di Washington, il discorso più alto, sofisticato e dotto di King. Dalla “lettera dal carcere di Birmingham”, dove era stato imprigionato l’aprile precedente in occasione di un’altra manifestazione, ai suoi tanti sermoni, abbiamo esempi migliori della potenza della retorica di King: della forza di quel pacifismo cristiano che ne definiva principi, visioni e strategia politica (in uno di questi sermoni, “Amare i tuoi nemici”, pronunciato a Detroit nel 1961, King offrì un monito implacabile e tragicamente profetico a chi si opponeva alla emancipazione degli afroamericani: “la vostra capacità di infliggere sofferenza sarà pari alla nostra capacità di sopportare la sofferenza … siate certi che vi sfiniremo con la nostra capacità di soffrire). Ma “I have a dream” ha acquisito nel tempo una impareggiabile valenza simbolica. Per il luogo e il momento in cui fu pronunciato: davanti non solo alla folla di manifestanti ma anche alla statua del Presidente che pose termine alla schiavitù e nel centennale del proclama di emancipazione di Lincoln. Per il contesto politico, segnato dalla timidezza di John Kennedy rispetto alla lotta alla segregazione e, poi, dall’incisiva azione del suo successore, Lyndon Johnson, che presiedette alle più importanti riforme in materia di diritti civili. Per l’abilità di King nell’affidarsi ai principi e agli stilemi canonici del repubblicanesimo statunitense – a partire appunto dalla Dichiarazione d’Indipendenza – nella sua richiesta di eguaglianza razziale. Per la straordinaria forza inclusiva e non-violenta del suo messaggio (non si deve mancare di “fiducia in tutta la comunità bianca”, sostenne in quell’occasione King, “perché molti dei nostri fratelli bianchi … sanno che il loro destino è legato col nostro destino e … la loro libertà inestricabilmente legata alla nostra”).

King era alla Casa Bianca il 2 luglio dell’anno successivo, quando Johnson firmò il “Civil Rights Act”, la più importante legge onnicomprensiva in materia di diritti civili, che tra le altre cose ampliava grandemente gli strumenti del governo federale per imporre la de-segregazione di scuole, parchi e spazi pubblici. Non fece però in tempo ad assistere a tanti altri progressi nelle condizioni degli afroamericani avvenuti nei decenni seguenti; quattro anni più tardi sarebbe stato infatti assassinato a Memphis, in uno dei tanti omicidi politici eclatanti di quegli anni. 

Non vide i progressi né i limiti di molte delle riforme per cui si batté: di un paese che si faceva più diverso e inclusivo, ma nel quale mille parametri – di reddito, istruzione, aspettative di vita – continuavano a evidenziare una profonda diseguaglianza razziale. E dove la razza continuava ad essere cruciale elemento di frattura politica e sociale. E di certo non avrebbe mai potuto immaginare che alla sua famosa foto segnaletica presa a Birmingham nel 1963 si sarebbe aggiunta sessant’anni più tardi per la prima volta quella di un ex Presidente, Donald Trump, incriminato per aver attentato alla democrazia statunitense ed eletto anche cavalcando il risentimento di un pezzo di America bianca che la svolta invocata da King non l’ha in fondo mai accettata.

Il Giornale di Brescia, 28 agosto 2023

Avatar di Mario Del Pero

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

Lascia un commento