Da più parti fioccano gli inviti a Joe Biden a farsi da parte. A non ricandidarsi l’anno prossimo. A chiudere onorevolmente un mandato segnato in realtà da importanti successi politici e caratterizzato dalla straordinaria disciplina e coesione sia della sua amministrazione sia della rappresentanza democratica al Congresso. La motivazione principale è anagrafica: l’età di un Presidente molto anziano, patentemente affaticato e non sempre lucido. Ma vi è anche il fardello delle inchieste sull’impresentabile figlio Hunter da cui Biden non ha saputo e voluto prendere le distanze. Figlio che sfruttava il nome e le relazioni per torbide attività di lobbying ad alto rischio di conflitto d’interessi, che senza competenza alcuna finiva nel consiglio d’amministrazione di controverse società dell’energia ucraine e offriva lucrose consulenze a uomini d’affari cinesi (uno dei quali poi condannato per frode).
Non vi sono per il momento elementi per mettere sotto accusa il Presidente se non appunto l’incapacità di bloccare Hunter o di dissociarsi apertamente da un figlio spregiudicato e in balia dei suoi tanti demoni e dipendenze. Piegandosi alle pressioni dell’ala più radicale del partito repubblicano, lo speaker della Camera Kevin McCarthy ha infine accettato di aprire la procedura d’impeachment di Biden. Non vi è alcuna possibilità che essa giunga a compimento e forse non vi sarà nemmeno un voto della Camera dei Rappresentanti (dove furono votate e approvate quelle di Trump). Ma le commissioni competenti avranno la possibilità di continuare a indagare su Hunter Biden e di tenere sotto i riflettori sia i suoi affari sia la sua vita dissoluta (la stampa scandalistica ha avuto gioco facile nell’esporre tutto quanto fu trovato su un computer di Hunter Biden, ad esempio). E di esporre quello che è stato a tutti gli effetti un conflitto d’interessi che Joe Biden – per inettitudine, per amore paterno, per spregiudicatezza, questo non è chiaro – non è riuscito a prevenire o bloccare.
Fa certo sorridere vedere Trump e i repubblicani cavalcarlo questo conflitto. Lo stesso Trump la cui famiglia ha lautamente approfittato dei quattro anni presidenziali, con la figlia Ivanka che nel mezzo delle guerre commerciali con Pechino registrava decine di marchi in Cina e il genero Jared Kushner che dopo aver gestito il dossier mediorientale creava una società d’investimenti quasi totalmente finanziata da un fondo sovrano saudita (per un totale di addirittura due miliardi di dollari). Ma da Biden e dai democratici altro e di meglio ovviamente ci si aspetta.
E invece nelle corruttive porte girevoli che dalla politica portano agli affari e alle consulenze si muove una parte ampia e trasversale della politica statunitense, democratica e repubblicana. Lo vediamo bene anche in tanti membri di questa amministrazione, dal Segretario della Difesa Austin – che prima di essere nominato fu in consigli di amministrazione di società destinatarie delle corpose commesse del Pentagono – a quello di Stato, Blinken, che aveva creato la sua società di consulenza per clienti che spesso interagivano con il Dipartimento che ora guida. In questo contesto, il rischio di corruzione è elevatissimo; il conflitto d’interessi spesso oggettivo e inevitabile. Con tutti i conseguenti corto-circuiti per una politica già debole e delegittimata, e per una democrazia contestata come mai in tempi recenti. Erigere paletti e definire regole chiare ed efficaci è immensamente complicato, ci mancherebbe. Ma certo sarebbe buona cosa evitare che i figli di Presidenti o Vicepresidenti (tale era Biden all’epoca) sfruttino in modo tanto sfacciato ed eclatante le loro relazioni ed entrature.
Il Giornale di Brescia, 18 settembre 2023
