Che fosse una missione complicata, quella di Joe Biden in Israele, lo si sapeva dal momento in cui è stata annunciata. La tragedia dell’ospedale di Ahli Arab l’ha resa di fatto impossibile, determinando la cancellazione del suo momento forse più importante: il summit in Giordania con il re Abdullah, il Presidente egiziano al-Sisi e quello dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas. Un summit, questo, che serviva anche a bilanciare l’ostentato momento di solidarietà a Israele di ieri, trasformatosi invece nell’evento dominante del viaggio del Presidente statunitense. In virtù del quale, nel mondo arabo e non solo, si è ulteriormente consolidata l’immagine di un paese – gli Usa – non imparziale e troppo schiacciato sull’alleato israeliano.
In realtà, Biden perseguiva obiettivi plurimi e diversi, incluso l’auspicio che nella tragedia si fosse aperto uno spiraglio per far ripartire un negoziato israelo-palestinese coordinato come sempre dagli Stati Uniti. Prossima Hamas a subire un attacco devastante – che ne avrebbe decimato leadership e quadri, e distrutto le infrastrutture – e ormai al capolinea l’esperienza di Netanyahu e del suo governo, sembravano uscire dal campo gli attori che in modi diversi più male avevano fatto al complesso dialogo tra le due parti. Quella piccola finestra di opportunità, se mai vi è stata, pare essersi per il momento chiusa. E l’amministrazione statunitense è chiamata a concentrarsi per il momento su cinque altri obiettivi.
Il primo è fornire tutto l’appoggio militare e d’intelligence possibile all’alleato israeliano. Per agevolare l’efficacia dell’azione contro Hamas. Ma anche per cercare di ridurre i danni collaterali e le tante vittime civili che inevitabilmente ne conseguono. È questo il secondo obiettivo, che presumibilmente è stato centrale nei dialoghi tra Biden e Netanyahu: prevenire una catastrofe umanitaria a Gaza per molti aspetti già in corso, attivando corridoi per i rifugiati, permettendo all’Onu e alle tante ONG lì attive di operare in (relativa) sicurezza, ripristinando servizi essenziali e garantendo l’indispensabile flusso di aiuti. Lo si chiede per ovvie ragioni umanitarie, appunto, ma lo si fa anche in conseguenza di un dissenso operativo con l’alleato israeliano e nella consapevolezza che la sua risposta estrema gli sta rapidamente alienando il capitale di solidarietà e sostegno maturato in Europa e in Nord America in seguito all’attacco di Hamas.
Il terzo obiettivo rimanda anch’essa alla natura del conflitto. Che l’amministrazione statunitense vuole rimanga il più possibile circoscritto e limitato. Funzionale a colpire duramente Hamas e ad aprire un dialogo successivo con l’ANP; ma non tale – per durata e intensità – da scatenare un effetto domino, portando altri soggetti, a partire da Hezbollah, a entrare nella contesa. Di tutto Washington ha bisogno, in questo momento, meno che di una nuova guerra mediorientale che coinvolga più attori e la metta in rotta di collisione non solo con l’Iran, ma anche con tanta parte del mondo arabo.
Anche perché, quarto obiettivo, Biden non può permettersi che le tensioni mediorientali abbiano un impatto sulla politica rispetto all’Ucraina e la prosecuzione degli aiuti a Kiev. Come invece chiedono diversi repubblicani, fortemente filo-israeliani, che in quanto sta avvenendo vedono validata la loro critica secondo la quale l’eccessiva esposizione sull’Ucraina avrebbe allontanato gli Usa dai teatri più importanti, a partire appunto dal Medio Oriente. Questo ci porta al quinto e ultimo obiettivo, che spiega in parte anche il surplus di retorica pro-Israele che Biden ha dispiegato ieri: contenere ripercussioni politiche sul piano interno, a maggior ragione di fronte all’anno elettorale che si sta aprendo.
È un esercizio di equilibrismo complesso e forse impossibile, quello che si chiede a Biden. L’impressione è che in questo viaggio esso non sia pienamente riuscito.
Il Giornale di Brescia, 19 ottobre 2023
