Non poteva sortire risultati maggiori l’atteso vertice tra Biden e Xi Jinping a margine del forum per la cooperazione economica nell’Asia-Pacifico (AIPEC) che si sta tenendo in questi giorni a San Francisco. Il che è molto, in sé, ma poco se misurato rispetto alle difficoltà e alle sfide con cui si confronta oggi la nodale relazione tra Cina e Stati Uniti.
Pechino si è impegnata a regolamentare l’esportazione delle sostanze chimiche che entrano nel ciclo di produzione del Fentanyl, l’oppiaceo che ha invaso il mercato statunitense (principalmente attraverso il Messico) provocando una devastante epidemia di morti da overdose, più di 70mila nel solo 2022. Si tratta di una concessione dall’alta valenza simbolica, e quindi politica, ma certo non sufficiente a catalizzare una serie di accordi più ampi. Le due grandi potenze dell’ordine mondiale corrente hanno inoltre ribadito il loro impegno comune nella lotta al cambiamento climatico: un problema globale, questo, che non può essere affrontato con iniziative unilaterali e senza un’azione collettiva e multilaterale. E si sono impegnate a preservare canali di comunicazione rapidi e immediati, nella consapevolezza che il rischio di malintesi, fraintendimenti, escalation accidentali delle crisi è – nelle relazioni internazionali – sempre molto elevato.
Meglio di nulla, si diceva. E il massimo che si potesse ottenere, dato il contesto e le circostanze. Che però paiono porre oggi ostacoli insormontabili al dispiegamento di una vera distensione o alla riattivazione di una relazione che è stata al centro dei processi contemporanei di globalizzazione. Vi è innanzitutto il quadro interno statunitense. Dove l’ostilità verso la Cina è ormai amplissima e politicamente trasversale. I sondaggi annuali Gallup mostrano dati impressionanti: appena il 15% degli americani ha oggi un’opinione positiva del gigante cinese, quando era il 53% solo cinque anni fa e in passato aveva raggiunto picchi del 70/75%. Un’opinione negativa, questa, che si accompagna all’idea che la Cina rappresenti non solo un sistema autoritario, ma anche – se non soprattutto – un competitore e una minaccia per gli Usa. In un anno elettorale tutto ciò pesa tantissimo e pone costrizioni stringenti a qualsiasi sforzo di riavvicinamento promosso dall’amministrazione Biden. Lo vediamo bene nelle critiche che molti repubblicani hanno mosso all’incontro con Xi, denunciandolo come un gesto di debolezza se non una vera e propria capitolazione. E lo vediamo ancor meglio nei dibattiti delle primarie repubblicane, dove i candidati competono nell’assumere virili posture anticinesi che talvolta tracimano in vera e propria sinofobia.
Agisce inoltre una trasformazione della relazione sino-statunitense a cui hanno contribuito (e stanno contribuendo) precise scelte politiche di una parte come dell’altra. L’interdipendenza rimane profonda, intendiamoci, ed evidenziata dalla centralità della Cina in tanti processi produttivi di imprese statunitensi a iniziare da Apple. Ma è in corso un’erosione, all’apparenza inarrestabile, di alcuni dei pilastri primari di tale interdipendenza. Le politiche industriali promosse negli ultimi anni dagli Usa, gli accordi commerciali bilaterali o multilaterali (come quello con Messico e Canada rinnovato nel 2018), il blocco del trasferimento di tecnologia sensibile e le guerre commerciali hanno avuto e stanno avendo un impatto importante: il picco del deficit commerciale statunitense con la Cina lo si è raggiunto nel 2018 e quest’anno vi sarà un’ulteriore, significativa contrazione delle importazioni. Il debito pubblico statunitense in mano cinese è a sua volta diminuito di molto negli anni, calando addirittura del 20% nel solo 2022.
Ben venga il dialogo, ci mancherebbe. E ben venga una collaborazione che riduca le tensioni e aiuti a risolvere alcuni dei dossier tragici e complessi della politica internazionale oggi. Senza però l’illusione che si possano riportare indietro le lancette della storia e tornare a un’epoca che è invece terminata da tempo.
Il Giornale di Brescia, 17 novembre 2023
