Verso il 2024, 3: le elezioni e la politica estera

Che i temi di politica estera abbiano impatto limitato o nullo sulle campagne presidenziali statunitensi è una leggenda tanto consolidata quanto infondata. Come quella – oggi forse meno popolare – secondo la quale nella matura democrazia statunitense vi fosse una naturale convergenza bipartisan sulle grandi questioni di politica estera e di sicurezza: che di fronte all’“interesse nazionale” (perenne, immutabile, pre e a-politico), democratici, repubblicani e indipendenti sapessero sempre accantonare le loro differenze in nome di un superiore bene comune.

Secondo questa narrazione, la politica – con le sue liti, i suoi opportunismi, le sue bassezze – si fermerebbe naturalmente al bordo dell’acqua, al “water’s edge”, dove terminano i confini nazionali. Di leggende, appunto, si tratta. La politica estera può pesare, e tanto, nelle competizioni elettorali e sul loro esito. Su di essa – dal trattato di Jay all’espansionismo, dalla guerra del 1898 alla Società delle Nazioni, dalla Corea al Vietnam, dall’Iraq al NAFTA, ecc ecc – gli americani si sono divisi aspramente; a uno sguardo più attento, anche l’epoca che si presume d’oro di questo consenso bipartisan – i primi due decenni della Guerra Fredda – rivelano una realtà ben diversa, tra maccartismo, polemiche su Onu e diritto internazionale, presunti gap missilistici e tanto, tanto altro (la letteratura è ovviamente sterminata, un buon punto di partenza sono il libro recente di Milner e Tingley, l’ottimo saggio di Logevall nella raccolta storiografica curata da Hogan e Costigliola, e i vecchi ma ancor utili libri di Melvin Small e di Stern).

E d’altronde, basta anche solo uno sguardo superficiale al dibattito politico statunitense per capire quanto presenti siano le questioni internazionali (e, spesso, quanto siano piegate a interessi politici ed elettorali contingenti). Qualcosa che si è fatto ancor più visibile, intenso e, verrebbe voglia di dire, “strutturale” con l’ascesa degli Usa a grande potenza mondiale al centro dei reticoli d’interdipendenze che caratterizzano l’ordine globale contemporaneo (e che espongono un’altra grande leggenda, quella di un isolazionismo che tale non è, non può essere e forse non è nemmeno mai stato, ma questo è per un altro commento).

In sintesi estrema:

  1. Negli Usa contemporanei non si possono chiaramente distinguere politica estera e politica interna. Prendiamo alcuni dei temi che stanno dominando – e domineranno- la campagna elettorale: immigrazione e criminalità; inflazione; insourcing e re-industrializzazione; diseguaglianze. Sono temi strettamente interni? No, tutt’altro, rimandano a scelte – accordi commerciali, rapporti con altri paesi, politiche monetarie coordinate ecc ecc – che hanno una forte dimensione “estera”, più o meno visibile;
  2. I temi strettamente di politica estera, anche in una loro declinazione molto ortodossa e mirata, ci sono eccome e lo stiamo vedendo nei dibattiti delle primarie repubblicane:  continuazione sostegno a Ucraina; nuova crisi israelo-palestinese; cosa fare con l’Iran; rapporti con alleati; più di tutto, come gestire la competizione con la Cina. E d’altronde, se prendiamo le ultime campagne presidenziali e lo vediamo di nuovo bene: 2004: questione guerra Iraq e “war on terror”; 2008: crisi finanziaria e azione russa in Georgia; 2012: Benghazi, Libia, conseguenze primavere arabe e dibattito su Russia; 2016: Cina, Messico e quant’altro

Insomma, si diffidi sempre  dell’esperto di turno che vi dice che la politica estera non conta sull’esito delle elezioni statunitensi, vuoi perché gli americani sono provincialotti e non guardano agli affari internazionali vuoi perché sono democraticamente più maturi e si ritrovano uniti e compatti a difendere l’interesse nazionale.

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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