Il 2023 di Joe Biden

Il tempo corre accelerato e in pochi mesi un quadro politico può mutare in modo significativo, se non radicale. Lo vediamo bene se proviamo a fare un bilancio degli Stati Uniti e dell’amministrazione Biden per l’anno che si sta per concludere. Dodici mesi fa, Biden e i democratici sembravano trovarsi in una condizione solida e per certi aspetti ottimale. Contro le previsioni, avevano ottenuto un risultato molto buono al mid-term – uno dei migliori degli ultimi decenni per il partito del Presidente in carica – preservando la maggioranza al Senato e perdendo di pochissimo quella alla Camera. Erano riusciti a portare a casa alcuni importanti successi legislativi, in particolare su infrastrutture, investimenti industriali e stimolo alla transizione verde. La guerra in Ucraina aveva rilanciato un’Alleanza Atlantica federata dalla rinnovata leadership statunitense, laddove nel mondo – a partire dall’Indo-Pacifico – sembrava consolidarsi e ricostituirsi un solido blocco di partnership guidato dagli Usa. In Medio Oriente, Washington provava a mettersi al centro di un’azione diplomatica finalizzata a completare la tela degli accordi di Abramo intessuta inizialmente da Trump, estendendola al soggetto più importante, quell’Arabia Saudita il cui riconoscimento d’Israele avrebbe alterato in modo decisivo le dinamiche regionali. L’amministrazione Biden mostrava una disciplina e una coesione quali non si vedevano da tempo, come del resto un partito democratico in teoria molto eterogeneo e composito, ma capace al Congresso di evitare spaccature che ne avrebbero pregiudicato l’azione di governo. In un contesto politico altamente polarizzato, i tassi di approvazione dell’operato di Biden rimanevano strutturalmente bassi, ma tornavano a salire sopra i 42/43 punti percentuali, laddove il suo principale avversario repubblicano, l’ex Presidente Donald Trump, si apprestava a subire varie incriminazioni e la commissione congressuale d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio 2021 pubblicava a fine anno un rapporto che ne dettagliava le responsabilità rispetto all’assalto al Congresso e al tentativo d’impedire una pacifica transizione dei poteri dopo il voto del 2020.

Un anno più tardi, il quadro appare essere radicalmente mutato. Le difficoltà in Ucraina hanno dato voce ai tanti scettici che invocano un disimpegno degli Usa e aperto un fronte permanente di scontro tra Esecutivo e Legislativo. Questo nuovo, drammatico capitolo del conflitto israelo-palestinese ha provocato divisioni e tensioni nel partito democratico e all’interno della stessa amministrazione, dove si sono levate voci critiche verso la linea ritenuta troppo filo-israeliana di Biden e si è assistito alle dimissioni di alcuni alti funzionari del Dipartimento di Stato. Il governo diviso, con uno dei due rami del Congresso controllato dai repubblicani, ha paralizzato l’azione legislativa. Sotto i riflettori sono tornati temi – l’immigrazione al confine col Messico, la criminalità, il degrado e la crisi di molti centri urbani – che avvantaggiano i repubblicani. Un presidente anziano e patentemente affaticato ha visto crollare la sua immagine, come rivelano implacabili molti sondaggi.

I dati positivi per Biden e i democratici rimangono, su tutti quelli che vengono da un quadro economico straordinariamente solido, dove a dispetto di tante previsioni – e degli alti tassi d’interesse – continuano a crescere PIL, retribuzioni e occupazione. E non vi sarebbe probabilmente avversario migliore di Donald Trump, soprattutto se gravato da una condanna – tutt’altro che impossibile – che gli alienerebbe il sostegno di molti elettori indipendenti e conservatori, e galvanizzerebbe un elettorato democratico al momento assai tiepido verso la ricandidatura di Biden. Di certo, il Presidente e il suo partito non pensavano, un anno fa, di trovarsi dove stanno oggi. Possono sperare che l’anno che si apre produca un cambiamento parimenti radicale, ma questa volta a proprio vantaggio. Sanno però che la lunga campagna elettorale ormai in corso limita ancor più la loro capacità d’azione e contribuisce ad abbruttire un confronto politico già di suo pesantemente degradato e nel quale è Donald Trump – con il suo vocabolario primitivo e le sue ostentate inclinazioni autoritarie – a trovarsi decisamente più a suo agio.

Il Giornale di Brescia, 28 dicembre 2023

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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