Prima di questo voto in New Hampshire, Nikki Haley aveva uno spiraglio sottilissimo per poter continuare a sperare di ottenere la nomination repubblicana. Il risultato elettorale – con la chiara vittoria di Trump – non lo chiude definitivamente (Haley ha pur sempre ottenuto il 43% dei voti e almeno 9 dei 22 delegati in palio), ma nemmeno contribuisce ad allargarlo. Ora si passa ai caucus del Nevada – ai quali Haley non parteciperà – e poi, il 24 febbraio, al voto nello Stato di cui è stata Governatrice, il South Carolina, dove i sondaggi però la danno in netto svantaggio rispetto Trump. Se Haley rimarrà nella contesa, dovrà trovare le risorse per reggere questo mese. Soprattutto avrà bisogno della tempra per sopportare la tonnellata di fango che le sarà gettata addosso dalla macchina trumpiana (che già sta facendo circolare dossier sulle sue presunte infedeltà matrimoniali; Trump ha fatto ieri un cenno criptico ma intimidatorio a “indagini” su “piccole cose” di cui certamente Haley “non vuole parlare”).
Appare quindi sempre più probabile che si vada verso un secondo atto della sfida tra Trump e Biden. Il New Hampshire offriva, in teoria, il terreno ideale per mettere in difficoltà l’ex Presidente. Uno stato dove meno forte è la destra religiosa e nel quale continua a esistere un conservatorismo classico, sulla carta più ricettivo al messaggio di Haley, interventista in materia di politica estera e contrario a deficit e alta spesa pubblica. E uno stato che ha un sistema di primarie semi-aperte (martedì potevano votare anche gli indipendenti), dove il popolare governatore Chris Sununu si è molto speso a sostegno di Haley. Eppure non è bastato. Perché e quali indicazioni più generali ne possiamo trarre?
La prima, banale ma cruciale, è che il partito repubblicano è oggi il partito di Donald Trump. Pochi lo avrebbero previsto dopo il voto del 2020 e, ancor più, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. L’elettorato conservatore ha prima accolto e poi pienamente interiorizzato il lessico e la postura di Trump. Come ciò sia stato possibile è tema sul quale gli studiosi da tempo s’interrogano. La proposta politica di Trump – disimpegno internazionale, protezionismo, mano dura sull’immigrazione, alta spesa pubblica – piace a un paese fattosi negli anni sempre più spaventato, introflesso e antiglobalista. La natura antipolitica dell’agire di Trump – il suo rigettare regole e pratiche consolidate (ultimo in ordine di tempo il suo rifiuto di partecipare ai dibattiti televisivi di queste primarie) – cavalca la diffusa delegittimazione della politica e delle istituzioni. Il suo linguaggio violento e volgare parla alla pancia di un elettorato che ne apprezza la asprezza e finanche la ostentata crudeltà. Le sue verità alternative – su tutte quella della vittoria rubata nel 2020 – vengono veicolate da forme di comunicazione orizzontali e non filtrate che le amplificano e rendono credibili.
La seconda indicazione è che la polarizzazione politica, sociale e culturale alimenta e valida una radicalità – di proposte, di comportamenti, di linguaggio – che Trump incarna e sussume. Con una conseguente esasperazione del confronto politico e un imbarbarimento del discorso pubblico che appare ormai inarrestabile.
Terzo e ultimo: il voto rappresenta un indubbio successo per Trump, che è nell’ultimo mezzo secolo il primo candidato repubblicano a vincere sia Iowa sia New Hampshire in primarie competitive (non quelle dove si candida un Presidente in carica). Letti in filigrana, i dati che cominciano ad arrivare ne evidenziano però alcune potenziali debolezze, che Biden e i democratici dovranno assolutamente cercare di sfruttare in novembre. Gli exit poll ci dicono ad esempio che l’alta partecipazione elettorale è dovuta ai tanti indipendenti che hanno in larga maggioranza votato per Haley, che lo scarto di genere continua a essere marcato (molti più uomini che donne votano Trump) e che l’ex Presidente fatica molto di più con l’elettorato che ha livelli di istruzione post-secondaria. Si conferma insomma l’esistenza di un perimetro dell’elettorato di Trump che è difficilmente espandibile e, in teoria, strutturalmente minoritario. A patto che la controparte riesca ad attivare pienamente il proprio di elettorato. Cosa tutt’altro che certa in questo momento.
Il Giornale di Brescia, 25 gennaio 2024

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