Erano attesi da giorni e alla fine i raid statunitensi contro milizie filoiraniane in Siria e Iraq sono giunti. Raid massici, da tutto quel che sappiamo, per numero (quasi 100 gli obiettivi colpiti) e armi utilizzate. E raid che potrebbero essere seguiti da altri, per massimizzarne l’efficacia pratica e simbolica.
L’azione risponde a precisi obiettivi strategici e politici. Che potrebbero però risultare elusivi, a fronte del rischio assunto di innescare quell’escalation che si vuole in realtà a tutti costi evitare. L’obiettivo strategico è quello di ripristinare la deterrenza garantita dalla indiscussa superiorità militare di cui godono gli Usa. Dimostrare di poter infliggere un danno durissimo al nemico serve per punirlo per l’attacco che ha causato la morte di tre soldati americani e per inibirne future azioni: per mostrare, con una risposta deliberatamente sproporzionata, quali siano le conseguenze di simili atti. La risposta non è però indirizzata solamente all’Iran e ai suoi alleati. Criticato dagli avversari repubblicani per la sua presunta debolezza, Biden ha agito anche per calcolo politico, consapevole che l’inazione in quest’anno elettorale non è contemplabile.
E però è tutt’altro che certo che l’attacco sia sufficiente o permetta il raggiungimento di tale combinato di obiettivi strategici e politici. La storia ci fa su questo un po’ da bussola. Riaffermare, o ripristinare, la credibilità della deterrenza può essere complesso e sfuggente ovvero impone di accettare la possibilità di alzare costantemente l’asticella della violenza dispiegata, alimentando una spirale che può andare fuori controllo. Cosa accade se l’avversario non solo non indietreggia, ma rilancia? O – pensiamo solo ai casi del Vietnam o più recentemente dell’Afghanistan – è disposto a sacrifici umani e materiali non solo non pareggiabili, ma potenzialmente illimitati? Certo, il caso in questione è molto diverso e per il momento tutto sembra indicare che l’Iran agisce in modo cauto e conservativo, consapevole dello squilibrio di forze in campo e mosso da un ovvio istinto di auto-sopravvivenza. Rimane però il nodo concettuale e pratico di utilizzare mezzi limitati e circoscritti per comunicare la propria disponibilità a ricorrere allo strumento militare. Il rischio, infatti, è quello di proiettare debolezza invece di forza, impotenza invece di decisione. Qualcosa che vediamo molto bene anche nelle azioni britanniche e statunitensi, ancor più limitate, contro gli Houthi nello Yemen.
Un dilemma ancor più acuto si pone rispetto alla dimensione politica interna. Dopo l’attacco alla base statunitense in Giordania e la morte dei tre soldati, importanti figure repubblicane hanno accusato Biden di “codardia” e inettitudine, giungendo a chiedere di colpire direttamente l’Iran e la sua stessa capitale Teheran. Nel mentre, tutti i sondaggi continuano a indicare come una ampia maggioranza di americani rimanga contraria a un coinvolgimento militare in questa nuova crisi mediorientale e, più in generale, a politiche interventiste onerose che rischiano di causare altre vittime statunitensi. Trump cavalca con efficacia entrambe queste critiche: si rappresenta – in molte narrazioni tanto infondate quanto popolari – come l’uomo che durante la sua Presidenza ha tenuto gli Usa fuori dalle guerre e ripristinato la virile credibilità della potenza statunitense. E Biden diventa, a seconda dei momenti e delle convenienze, l’irresponsabile guerrafondaio che vuole trascinare gli Usa in altri inutili conflitti o il Presidente irresoluto e imbelle, che con la sua debolezza stimola gli avversari ad agire e gli permette di umiliare impunemente gli Stati Uniti. Capiremo nelle settimane e nei mesi a venire se i raid sono risultati efficaci, se l’escalation è stata evitata e se gli effetti politico-elettorali sono stati raggiunti. Almeno per il momento non sembrano però concorrere a rafforzare l’immagine di Biden in patria e nel mondo.
Il Giornale di Brescia, 5 febbraio 2024
