Nuove armi e crisi della governance mondiale

Una nuova arma nucleare capace di colpire il sistema satellitare statunitense e, di conseguenza, la rete di comunicazioni civili e militari che essa garantisce. Questo starebbe cercando di realizzare la Russia secondo intelligence condivisa dagli Usa con gli alleati europei e le commissioni competenti di Senato e Camera, rivelata poi dal presidente di quest’ultima, il repubblicano Michael Turner.

Non sappiamo se quest’intelligence sia affidabile e se gli scenari che prospetta siano realistici o, come pare, ancora assai futuribili. La discussione per il momento si basa solo su una vaga dichiarazione di Turner.  E però la vicenda rimane significativa e offre lo spunto per riflettere sullo stato delle relazioni internazionali e della governance mondiale.

La competizione militare e, con essa, quella agli armamenti nucleari, non è mai venuta meno, neanche nei momenti di massima distensione nei rapporti tra le grandi potenze. È però stata soggetta a sforzi negoziali finalizzati a disciplinarla, contenerla e ridurre il rischio di un conflitto atomico insostenibile per tutte le parti in causa. Dagli anni Sessanta in poi, una rete di accordi quasi sempre facilitati dal dialogo tra Washington e Mosca hanno permesso di costruire un efficace regime di non-proliferazione, istituzionalizzando e rendendo operativa quella logica della deterrenza nucleare su cui si fondano, paradossalmente, l’equilibrio e la pace (il paradosso risiede nel fatto che è la certezza della propria distruzione – e l’accettazione ultima di tale rischio – che inibisce l’azione). Tra questi accordi vi è anche l’“Outer Space Treaty” del 1967, il trattato sullo spazio firmato inizialmente da Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito che vieta il dispiegamento di armi nucleari nello spazio extra-atmosferico e ne norma l’esplorazione e l’uso pacifico.

È un sistema di governance, quello edificato negli ultimi decenni del XX secolo in materia di armi nucleari, che scricchiola ormai da tempo. A metterlo in crisi sono stati sia le trasformazioni tecnologiche che hanno modificato il contesto in cui gli accordi furono ratificati sia gli standard doppi con cui essi sono stati applicati. Standard, questi, in fondo intrinsechi alle stesse logiche di tale normazione, fondata sul presupposto che si debba accettare una gerarchia di potenza tra chi dispone del privilegio di possedere un arsenale nucleare e gli altri. E standard duali applicati prima di tutti dagli stessi Stati Uniti, che nel 2002 abbandonarono un tassello fondamentale – forse il più importante – della governance del nucleare, quel trattato ABM che limitava la capacità di difendersi da un attacco nucleare e garantiva la piena operatività della deterrenza. Pezzo a pezzo, altri elementi di questa governance sono stati abbandonati da Russia e Usa, laddove potenze minori – si pensi ai casi di Corea del Nord e Iran – sfidavano apertamente il regime di non proliferazione e la Cina si lanciava in un attivismo nello spazio che sfidava anch’esso l’accordo del 1967 (a cui Pechino aveva aderito nel 1983). Non sappiamo, si diceva, quanto concreti o futuribili siano i progetti russi denunciati in questi giorni a Washington. L’impressione è che le rivelazioni di Turner rispondano prima di tutto a giochi politici interni al Congresso e alla questione dell’approvazione di un nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina. Quel che essi, e le polemiche che li accompagnano, ci mostrano è però una volta di più la crisi del sistema di regole che hanno accompagnato e permesso i processi contemporanei d’integrazione globale. E assieme ad essa la fine di un tabù, quello della discussione su un possibile conflitto nucleare, che di questi processi è stato tanto causa quanto esito.

Il Giornale di Brescia, 17 febbraio 2024

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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