Perché ancora Biden?

Perché ancora Biden?

Ha tassi di approvazione del suo operato bassissimi, non dissimili da quelli di Donald Trump quattro anni fa. Una larghissima maggioranza dell’elettorato, incluso quello democratico, lo ritiene troppo anziano per un secondo mandato. Al di là delle gaffe, oggi frequenti ma comuni in tutta la sua carriera politica, appare chiaramente affaticato e in difficoltà nell’interagire con giornalisti che il suo staff cerca di tenere sempre più a distanza: nelle conferenze stampa il tempo dedicato alle domande è stato ridotto al minimo o addirittura annullato; era dai tempi di Reagan che un Presidente non evitava così tanto il confronto con i media. E deve affrontare una campagna elettorale che non potrà certo essere condotta dal salotto di casa, come accadde durante la pandemia del 2020.

Quattro anni fa pochi avrebbero previsto o immaginato che nel 2024 Joe Biden si sarebbe candidato a un secondo mandato. Era già il Presidente più anziano nella storia del paese, con i suoi 78 anni (oggi sono 81, il secondo in questa classifica è Ronald Reagan che aveva 77 anni quando terminò la sua Presidenza, nel 1989). E invece ha deciso di chiedere agli elettori una conferma alla Casa Bianca e ci ritroviamo con la quasi certezza, anch’essa inimmaginabile quattro anni fa, di una nuova sfida con Donald Trump.

Perché ancora Joe Biden? Per rispondere a questa domanda è utile procedere per punti schematici, come abbiamo fatto ponendo la stessa domanda per Donald Trump.

  1. La prima risposta è per certi aspetti la più banale: un Presidente in carica quasi sempre chiede una conferma a un secondo mandato. Per completare il lavoro svolto; perché è una sorta di diritto a cui si fatica a rinunciare; perché quella presidenziale è la carica politica apicale, dopo la quale esiste solo il buen retiro, come hanno scoperto in tempi recenti Barack Obama o George Bush Jr. Vi sono ovviamente delle eccezioni, recenti e lontane. Lyndon Johnson decise di non ricandidarsi nel 1968, travolto dalle contestazioni per la guerra del Vietnam; John Quincy Adams fu eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1830 dopo la sua esperienza presidenziale del 1825-29; Andrew Johnson al Senato nel 1874 dopo essere stato Presidente tra il 1865 e il 1869; William Howard Taft – Presidente tra il 1909 e il 1913 – venne nominato Giudice della Corte Suprema nel 1921. Ma sono appunto esperienze specifiche e assai poco attuali.
  • Biden si ricandida anche perché ritiene di aver ben governato e di meritarlo. A prescindere dal giudizio politico, positivo o negativo, che si può dare sul contenuto di questa azione di governo, di certo essa è stata incisiva. Su questo è difficile dargli torto. Durante il primo biennio di Biden, in cui i democratici controllavano i due rami del Congresso sia pure con maggioranze risicatissime, sono stati approvati importanti provvedimenti – su infrastrutture, sostegno a re-industrializzazione, ambiente, sanità, e altro – e la produttività legislativa sostanziale è risultata la più alta degli ultimi decenni. Risultati ottenuti grazie alla disciplina di un’amministrazione molto coesa, da cui non usciva uno spiffero e nella quale non vi erano dimissioni o turnover (eclatante è al riguardo il contrasto con il caos dell’amministrazione Trump, dove si sono succeduti quattro Consiglieri per la Sicurezza Nazionale e quattro Capi di Gabinetto e furono sostituiti in corso d’opera sia il Ministro della Giustizia sia il Segretario di Stato, oltre a infinite cariche minori). Una disciplina, questa, che si trasferiva allo stesso partito e alla sua rappresentanza congressuale. In teoria divisi, eterogenei e litigiosi. Ma capaci appunto di limitare al minimo le defezioni, portare a casa risultati legislativi inimmaginabili e offrire quindi una dimostrazione di efficienza stridente rispetto alla disfunzionalità della Camera post mid-term 2022, paralizzata invece dalle divisioni interne a una maggioranza repubblicana incapace a lungo anche solo di eleggere uno speaker.
  • Una candidatura debole come quella di Harris difficilmente sarebbe stata accettata senza la legittimazione di primarie alle quali avrebbero partecipato figure forti e popolari, come la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer (rieletta trionfalmente nel 2022 in uno stato dove i repubblicani sono molto competitivi), il governatore dell’Illinois J.R. Pritzker, quello della California, Gavin Newsom, il segretario dei Trasporti Pete Buttigieg, la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar e molti altri ancora. Una lista lunga, questa, che riporta inevitabilmente alla memoria le primarie del 2020, quando i candidati furono inizialmente più di venti. E quando le divisioni e i conflitti tra i democratici furono in una certa misura esasperati. È questa forse la spiegazione più importante della decisione di Biden di ricandidarsi. L’attuale Presidente è figura di sintesi di un partito altrimenti diviso e frammentato. Quello “sulla carta” maggiormente capace di preservarne l’unità, evitando defezioni elettorali potenzialmente letali in un contesto altamente polarizzato, dove è necessario, invero vitale, mobilitare pienamente il proprio bacino elettorale per sperare di poter vincere.

Lo è “sulla carta”, però. Il 7 ottobre e quel che è seguito ha infatti aperto crepe profonde nell’amministrazione, nella rappresentanza congressuale e ancor più tra elettori sempre più critici nei confronti d’Israele e della sua risposta a Gaza. E ha incrinato sia la coesione dei democratici sia la credibilità di Biden come unico federatore possibile. Finendo così per esporne ancor più le fragilità e debolezze, a partire da quella tanto visibile di un’anagrafe implacabile che, come ha rimarcato freddamente l’ex consigliere di Obama David Axelrod, diversamente da altri elementi non è in alcun modo modificabile.

Pubblicato il 27.2.2024 su “Atlante Treccani”: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/perche-ancora-biden.html

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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