Qualche rapida considerazione sul dibattito di stanotte

Qualche rapida considerazione sull’orribile dibattito di stanotte

  1. Trump ne esce largamente vincitore, come i primi sondaggi peraltro evidenziano. È stata una serata letteralmente catastrofica per Biden e i democratici. Privo di voce e, spesso, di lucidità, il Presidente è incespicato, ha fatto fatica ad articolare frase coerenti e compiute, sembrava talora perso. Molto banalmente, 90 minuti così intensi sono troppi per un anziano chiaramente affaticato e che lì non doveva trovarsi;
  2. Il dibattito doveva servire a Biden per mostrare l’infondatezza delle preoccupazioni sulla sua lucidità e capacità cognitiva e per mettere sotto i riflettori l’incivile inadeguatezza del suo avversario. Si è realizzato il contrario. Il formato del dibattito – niente pubblico e microfoni spenti – ha forzosamente civilizzato Trump, contenendone intemperanza e aggressività. Non lo ha reso più preparato e preciso, che in fondo ha ripetuto – con vocabolario molto scolastico e primitivo –la solita litania di bugie, approssimazioni e sciocchezze. Ma gli ha permesso di proiettare un messaggio di forza, energia e virilità che sappiamo piacere non solo ai suoi elettori, ma anche a segmenti piccoli ma potenzialmente decisivi di votanti tradizionalmente democratici (si pensi solo alla sua crescita di consensi tra giovani maschi afroamericani o ispanici);
  3. Di contenuti ve ne sono stati davvero pochi, come del resto nei bruttissimi dibattiti di quattro anni fa. È stata un confronto centrato sui caratteri e la capacità dei due candidati, molto più che sulle loro proposte politiche, e lì Trump ha stravinto. Ma non è vero che è sempre stato così – che dei contenuti delle politiche si parli poco – tutt’altro. E non serve andare tanto a ritroso nel tempo: basta rivedersi, ad esempio, i dibattiti tra Kerry e Bush Jr. del 2004 o almeno il secondo tra Romney e Obama del 2012, dove si entrò (fin troppo) nel dettaglio dei tecnicismi di varie questioni politiche e legislative. Questi dibattiti, come la sfida Biden-Trump, segnalano a modo loro il degrado della politica e la patente fatica della democrazia statunitense.
  4. Sul perché Biden sia candidato a un secondo mandato abbiamo già scritto in abbondanza. Che sia un errore madornale è evidente e il disastro di ieri lo conferma al di là di qualsiasi (bassa) aspettativa. Probabilmente avrebbe dovuto annunciare la decisione di non ricandidarsi dopo l’ottimo risultato del mid-term. Mettendo a disposizione del suo successore democratico il capitale di un mandato per certi aspetti straordinario in termini di disciplina e coesione dell’amministrazione e delle tenui maggioranze democratiche al Congresso, e di conseguenti grandi successi legislativi.
  5. E ora? Biden dovrebbe farsi da parte, è evidente. Non è in grado di comunicare, mobilitare, convincere e di reggere le fatiche di una campagna elettorale. Il rischio, se decidesse di rinunciare, è che si apra un ingestibile vaso di Pandora. La scelta naturale sarebbe ovviamente Kamala Harris. Che per varie ragioni è però ancor più impopolare e fragile di Biden. La scelta ideale sarebbe forse un’accoppiata di governatori (la popolare governatrice del Michigan, Gretchen Withmer e quello dell’Illinois, J. B. Pritzker, ad esempio); difficile però la Harris lo accetti e possibili le ripercussioni negative sull’elettorato nero. Una convention aperta, alla pre-1972, è un’opzione, ma sarebbe molto tardi – si terrà il 19-22 agosto – e altissimo è il rischio che risulti divisiva e lacerante di un partito di suo composito e ad alto tasso di conflittualità interna.
  6. Abbiamo visto di tutto in questi anni, incluso una tentata eversione e un’insurrezione conseguente (questi, inutile girarci attorno, sono stati il post-voto 2020 e il 6 gennaio 2021). E l’impressione, ahimè, è che non abbiamo ancora visto abbastanza….

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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