Ancora su Biden

È stata la prima conferenza stampa in cui Biden ha dialogato liberamente con i giornalisti da quella successiva al suo incontro con Xi Jinping in California del novembre scorso. Dai tempi del secondo mandato di Reagan, un Presidente non interagiva meno con la stampa. In questi tre anni e mezzo, le conferenze stampa e le interviste di Biden sono state circa 1/3 di quelle di Trump e 1/4 di quelle di Obama. E come sa bene chi quelle conferenze stampa le segue, da tempo – da ben prima del disastroso dibattito di Atlanta – i suoi consiglieri gli impediscono di rispondere alle domande e lo trascinano (in alcuni casi letteralmente) fuori dalla stanza dopo il suo intervento letto sul gobbo.

La conferenza stampa di giovedì notte è stata dignitosa per Biden e problematica per i democratici. Il Presidente si è ben districato tra dossier di politica estera che costituiscono il suo pane, e il suo tema preferito, fin da quando era senatore. E però ha fatto le sue solite gaffe – come confondere Zelensky con Putin e la vicepresidente Harris con Trump – debitamente sottolineate da tutti i media a partire da quelli un tempo amici, come il NYTimes, che hanno lanciato una campagna massiccia per indurre a Biden a ritirarsi. E ha mostrato, se mai ve ne fosse ancora bisogno, tutta la sua affaticata anzianità.

Difficile dare torto a chi chiede a Biden di farsi da parte. Pur in un contesto iper-polarizzato, e di bassissima mobilità di voti e consensi, i sondaggi mostrano come in pochi giorni si sia aperta una piccola ma significativa forbice tra Trump e Biden sia su scala nazionale sia, soprattutto, in quelli che in novembre saranno gli “swing states” decisivi. Se prima di Atlanta i due erano sostanzialmente appaiati, ora vi sono – nell’aggregato complessivo – almeno 2/3 punti di scarto a favore di Trump. Che si trova, anche se di poco, avanti in quegli stati del Midwest – Wisconsin, Michigan e Pennsylvania – che dovrebbero costituire per Biden la polizza – il “firewall” – con cui compensare  sconfitte che oggi appaiono probabili in Arizona e Georgia. I tassi di approvazione dell’operato di Biden sono bassissimi, attorno al 36/37%, con quasi venti punti percentuali di scarto rispetto a chi disapprova la sua azione. Una maggioranza oggi impressionante di elettori ritiene che Biden non abbia più le piene facoltà cognitive indispensabili per candidarsi a un secondo mandato. Il 70/75 % degli stessi democratici vorrebbe che Biden fosse sostituito con un altro candidato

Le cose possono ancora cambiare, intendiamoci. Negli ultimi giorni, gli stessi sondaggi dicono che Biden avrebbe recuperato qualche decimale di consenso (ma siamo dentro oscillazioni fisiologiche ai margini di errore). Trump continua a essere candidato debole, polarizzante e inviso: il suo tasso di popolarità si aggira a sua volta attorno al 40%; una chiara maggioranza di americani, secondo un recente sondaggio Pew, lo ritiene addirittura “imbarazzante” e “meschino” . E la paura che genera tra l’elettorato democratico e indipendente può, come in passato, fare da traino e spingere molti a votare comunque per Biden.

Di fatto, però, tutta i riflettori sono ora puntati sullo stato di salute e la senilità di Biden. E lo resteranno nelle settimane e nei mesi a venire, offrendo ai repubblicani un potentissimo argomento elettorale. Perché in novembre si vota per un Presidente che dovrà poi restare in carica altri 4 anni; la cui funzione non terminerà appunto con il voto. Per modificare questo stato di cose, Biden dovrebbe tenere ogni giorno conferenze stampa come quelle di giovedì. Dimostrare coi fatti che le paure e preoccupazioni sono infondate. Che non lo faccia, e non lo abbia fatto per anni, ci dice però molto. Mentre la sua cocciuta ostinazione fa passare tempo prezioso, rendendo sempre più complicato la transizione a un nuovo ticket elettorale.

Il Giornale di Brescia, 13 luglio 2024

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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