Si chiude la convention repubblicana. Si chiude in un clima sovraccarico e circense, con Hulk Hogan che strappa magliette, Kimberly Guilfoyle che fa il verso a Belushi e i “tedeschi che bombardarono Pearl Harbor” ricordando gli “eroi della Normandia” che “affrontarono il comunismo” e Tucker Carlson che invoca “il Dio che è tra noi”. E si chiude con i 90 minuti, interminabili minuti del discorso di Trump. Si era detto che lo avrebbe riscritto dopo l’attentato, offrendo un messaggio di unità nazionale, inclusivo e moderato. E invece, al di là di alcune frasi di rito e il riferimento anch’egli al Dio che “gli stava al fianco” salvandogli la vita una settimana fa, Trump è stato il solito Trump: apocalittico nel presentare lo stato del paese; “unhinged” – sconclusionato e fuori controllo – in alcuni passaggi; grossolano e assai poco presidenziale nelle offese agli avversari, su tutti quella “crazy Nancy” con cui da tempo apostrofa la Pelosi.
Trump è oggi chiaramente favorito. I democratici sono lacerati da questa interminabile discussione sulla senilità di Biden e la sua possibile sostituzione, hanno perso quasi inutilmente un mese, si sono divisi e rischiano di farlo ancora di più nella transizione post-Biden, hanno un’alternativa naturale – la Harris – che è molto debole (invito a rivedersi le sue pessime performance nei dibattiti delle primarie 2020 e, anche, in quello con Pence). I sondaggi in una certa misura lo evidenziano. Dopo il dibattito di Atlanta una piccola forbice si è aperta tra Biden e Trump, a livello nazionale e, ancor più, in gran parte degli swing states decisivi. Nel primo, secondo gli aggregati di 538, vi sarebbero 2/3 punti di vantaggio per Trump, che pesano anche perché la differente distribuzione degli elettori e le modalità di voto obbligano i dems a vincere più largo nel voto popolare (che dal 92 a oggi hanno infatti perso solo nel 2004). Ma sono soprattutto i numeri che arrivano dagli swing states a essere problematici per Biden o chi presumibilmente lo sostituirà.
In quelli del Southwest – Arizona e Nevada – vi sono 5/6 punti di scarto. La prima, in particolare, è difficile capire come potrà essere vinta (e pure in New Mexico Biden è avanti ma non di moltissimo). Dati simili arrivano dai due stati cruciali del sud, Georgia e North Carolina. I tre della Rustbelt – Wisconsin, Michigan e Pennsylvania – vedono Trump avanti, anche se di meno (1/3 punti). All’ex Presidente basterebbe conquistarne uno per avere la certezza della vittoria e la scelta di Vance come VP anche in quella chiave va letta. Qui però si apre quel po’ di speranza che resta ai democratici. Che poggia appunto sul preservare il fondamentale firewall del Midwest: vincere quei tre stati e un grande elettore in Nebraska (l’unico stato insieme al Maine che non ha il winner-take-all) porterebbe a un 270 a 268 a favore dei dems (immaginiamo già la reazione di Trump e dei suoi se quello fosse il risultato, e ci sarà nel caso davvero da allacciarsi le cinture). In grande sintesi:
- Se dopo un mese simile, con Biden così impopolare e il convincimento diffuso anche tra il suo elettorato che si debba fare da parte, il vantaggio nel Midwest è così stretto, allora vuol dire che la partita è aperta. E quasi certamente, in un nuovo ticket presidenziale, i dems metterebbero uno/a dei popolari governatori/governatrici della regione, come la Whitmer (Michigan) o Shapiro (Pennsylvania);
- Viene in aiuto ai dems la polarizzazione politica ed elettorale, che limita la mobilità di opinioni e voti e permette, alla parte più in difficoltà, di contenere eventuali perdite, come peraltro abbiamo visto in tanti cicli elettorali recenti;
- Trump, a volte lo dimentichiamo, rimane figura divisiva e impopolare, apprezzato da non più del 40/42% dei votanti. E, lo abbiamo visto ieri, non è capace di moderarsi e contenersi. È al di là delle sue capacità e nel contesto di una campagna elettorale aspra e finanche brutta questo aspetto ritornerà;
- Le proposte politiche molto radicali e, in certe declinazioni, potenzialmente autoritarie che vengono dalla destra – pensiamo al famoso Project 2025 della Heritage – spaventano e i dems stanno cercando di cavalcare questa paura;
- Come vincente rimane il tema dell’aborto, al di là dei tentativi di Trump e i repubblicani non di assumere posizioni più moderate al riguardo (parlare di states’ rights non è propriamente moderato…), ma semplicemente di rimuovere la questione dall’agenda;
- Le convention sono momenti circensi, ci sta. Ma in questa di Milwaukee si è talora passato il segno, soprattutto nella ultima giornata. E il messaggio apocalittico e religioso di tanti interventi, incluso quello di Trump, risulterà anche mobilitante per il proprio elettorato, ma contro.mobilita gli avversari e probabilmente aliena qualche elettore. Che gli Usa – a dispetto dei tanti, inscalfibili stereotipi sul paese dei fucili e della bibbia – hanno visto un significativo calo della religiosità negli ultimi dieci/quindici anni, particolarmente marcato proprio tra gli evangelici bianchi il cui peso relativo, e quindi importanza politica, sono calati in modo rilevante.
Insomma, Trump è favorito anche grazie allo straordinario autolesionismo democratico, ma la partita rimane in una certa misura aperta.

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