Doveva essere, dopo l’attentato alla sua vita della settimana scorsa, il momento in cui Donald Trump si faceva finalmente presidenziale. Metteva da parte rancori e vecchie polemiche, moderava tono e contenuti della sua retorica politica per offrire un messaggio inclusivo di unità nazionale nel quale, ormai Presidente in pectore, tendeva finanche la mano ai suoi avversari. Non è stato così e forse, visto il personaggio, non poteva esserlo. In un discorso interminabile e a tratti non poco incoerente, Trump ha riproposto tutti gli stilemi del suo campionario retorico, con descrizioni apocalittiche dello stato del paese, nazionalismo radicale e immancabili offese ai suoi avversari, l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi su tutti. È stato, il discorso di Trump, il picco di una giornata in cui la convention – come spesso capita in queste occasioni – più è precipitata in una dimensione caricaturale e quasi circense, con l’ex campione del wrestling Hulk Hogan che strappa le magliette, ostentando gli attempati bicipiti, e i riferimenti incessanti a un Dio schierato senza esitazioni a fianco dei repubblicani (“Dio è tra noi” ha tuonato il giornalista ultra-conservatore Tucker Carlson; “avevo Dio al mio fianco” ha sostenuto Trump in riferimento allo scampato attentato; è stato Dio a “risparmiare la vita” di Trump, ha confermato il pastore evangelico Franklin Graham, il figlio del leggendario Billy).
Si è trattato forse della miglior giornata da un mese a questa parte per i democratici. Come hanno sottolineato molti commentatori, era da quella di Denver del 2008, dove fu incoronato Barack Obama, che in una convention non si respirava una simile certezza di avere la vittoria a portata di mano. Una certezza che ha però contribuito ad alzare i toni e abbandonare ben presto le promesse di moderazione ed ecumenismo. Aprendo così uno spiraglio per i democratici. Che corrono ad handicap, ci mancherebbe. E che non possono pensare di poter vincere ricandidando un uomo, Biden, ritenuto non più in grado di svolgere le funzioni presidenziali da una larga maggioranza del suo stesso elettorato.
I toni sovraccarichi che vengono da Milwaukee rimettono però sotto i riflettori elementi che già contribuirono alle sconfitte repubblicane del 2018, 2020 e 2022. Trump, a volte lo si dimentica, rimane a sua volta figura politica impopolare e polarizzante, verso cui una larga maggioranza di americani (tra il 55 e il 60%, secondo i sondaggi) continua a essere molto critica. Il paese si è fatto negli ultimi due decenni assai meno religioso e più secolare, come mostra anche il significativo declino di tante chiese evangeliche bianche. Su temi come aborto o armi, le posizioni repubblicane risultano non poco impopolari. I piani di radicale riorganizzazione delle istituzioni – come il famoso “Project 2025” della Heritage Foundation, una delle think tank più vicine all’ex Presidente e alla destra repubblicana – spaventano a loro volta, tanto che Trump stesso ha cominciato a prenderne le distanze. Ed è, questa paura, una evidente risorsa elettorale per i democratici.
La strada per restare alla Casa Bianca continua a essere impervia, intendiamoci. I sondaggi sembrano mostrare come gli stati decisivi del sud e del sudovest che i democratici vinsero nel 2020 (Georgia, Arizona e Nevada) siano oggi destinati ad andare a Trump e Vance. Rimane però il firewall del Midwest: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Dove, dopo un mese così disastroso per i democratici, lo scarto nei sondaggi è di appena 1/2 punti. Se il loro candidato (o la loro candidata) dovesse riuscire a vincerli, ci troveremmo il 5 novembre in una situazione di 270 a 268 per i democratici. Una prospettiva da far tremare i polsi, visto il precedente del 2020 e il tentativo di Trump d’impedire la pacifica transizione dei poteri. E una situazione contemplabile solo laddove Biden si facesse da parte e nel nuovo ticket trovassero spazio figure popolari della regione come la governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer o il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro.
Il Giornale di Brescia, 20 luglio 2024
