Da tempo le convention presidenziali hanno perso il pathos e l’imprevedibilità di un tempo. Hanno cessato di essere il momento in cui davvero si sceglieva il ticket presidenziale, per trasformarsi in festose celebrazioni dell’incoronato (o, tra tre giorni e per la seconda volta nella storia, dell’incoronata). Si sono vieppiù trasformate in eventi mediatici finalizzati a chiamare a raccolta il proprio elettorato, convincere gli indecisi e presentare al pubblico i candidati a Presidenza e Vicepresidenza. Pubblico, a volte lo dimentichiamo, nel quale una larga maggioranza di elettori segue distrattamente la politica e ha bisogno d’informazioni supplementari su chi chiede il suo voto.
La convention democratica, apertasi questa notte a Chicago, rappresenta però un’eccezione rispetto all’ultimo mezzo secolo di politica americana. Questa sua eccentricità offre delle possibilità e pone dei rischi a Kamala Harris, che nella notte tra giovedì e venerdì accetterà formalmente la nomination del suo partito. Harris vi giunge senza l’investitura del voto delle primarie e solo in conseguenza della decisione del loro vincitore, e Presidente in carica, Joe Biden di ritirarsi. Il partito si è formalmente compattato dietro di lei e la sua candidatura ha generato un forte entusiasmo, misurabile in termini di donazioni, registrazioni elettorali e sondaggi che indicano come la partita sia stata completamente riaperta quando solo un mese fa, alla convention repubblicana di Milwaukee e dopo l’attentato a Trump, essa sembrava davvero chiusa.
Rimangono però molti punti di domanda, sulla candidatura Harris così come sull’effettiva coesione di un partito e di un elettorato – quelli democratici – assai più compositi e divisi della controparte repubblicana. Harris deve usare questa convention per consolidare l’entusiastica mobilitazione del popolo democratico di queste ultime settimane. Lo può fare sfruttando gli interventi, presumibilmente trascinanti, di alcune delle più importanti figure del partito, gli ex Presidenti Barack Obama e Bill Clinton su tutti, offrendo un messaggio solare, positivo e rivolto al futuro, così lontano da quello distopico e apocalittico di Trump, e delineando con nettezza un profilo – il suo – ancora poco noto a tanti elettori: utilizzando questa opportunità per definire sé stessa e la sua storia. Dispone, insomma, di margini di manovra che pochi candidati alla Presidenza hanno avuto negli ultimi decenni (viene in mente Barack Obama nel 2008, ma la sua, di definizione, avvenne nel ciclo delle primarie e non alla convention).
Accanto alle opportunità vi sono però anche i rischi. Sotto traccia emergono persistenti divisioni e tensioni nell’establishment democratico, legate alle pressioni che hanno indotto Biden a farsi da parte e alla difficile scelta del candidato alla vicepresidenza, culminata nella decisione di preferire il governatore del Minnesota Tim Walz a quello della Pennsylvania Josh Shapiro. Difficile, se non impossibile, che esse si manifestino apertamente e Shapiro è stato finora anzi molto attivo nel fare campagna per Harris, ma potrebbero nuocere appunto a quell’entusiasmo e a quella unità di cui i democratici hanno assolutamente bisogno per sperare di poter vincere in novembre. Soprattutto se dovessero intrecciarsi con la pesante incognita che aleggia sulla convention: la gestione delle manifestazioni che si preannunciano rispetto a Gaza e alle responsabilità dell’amministrazione Biden per la tragedia umanitaria che vi si sta consumando. Qui, il rischio per Harris è duplice. Eventuali incidenti farebbero il gioco di una controparte che denuncia la presunta debolezza dei democratici sui temi della legge e dell’ordine pubblico. L’incapacità di dialogare direttamente e indirettamente con i manifestanti metterebbe Harris in difficoltà con segmenti fondamentali dell’elettorato – a partire dai giovani – e con un popolo democratico sempre più critico verso Israele e chi lo guida.
Il Giornale di Brescia, 20 agosto 2024
