Non è semplice dare un senso agli ultimi sondaggi prodotti da Siena-NYTimes. Prima ne esce uno nazionale che dà Harris e Trump alla pari e che sembra quindi essere positivo per il secondo: è teoria diffusa che con la sovra-rappresentanza degli stati meno popolati nel collegio elettorale e in contesto così polarizzato, i dems devono vincere largo (di 2/3 punti percentuali) il voto popolare per avere la certezza di rimanere alla Casa Bianca. Lo stesso sondaggio dà però Harris avanti di 4 punti nella cruciale Pennsylvania, importante di per sé ma anche per quel che può indicare rispetto alla competitività della Harris negli altri due stati decisivi del Midwest, Michigan e Wisconsin (vincendo i quali, assieme al grande elettore del Nebraska-2, arriverebbe alla maggioranza del 270 elettori). Poi, a pochi giorni di distanza esce un altro sondaggio, che vede Harris indietro, molto più di quanto non abbiano finora indicato le rilevazioni (e con oscillazioni più marcate), in altri tre swing states cruciali del sud e del sud-ovest: North Carolina (49 a 47), Georgia (49 a 45) e Arizona (50 a 45). Dove altre rilevazioni avevano evidenziato un dato che sembrava invece favorevole a Harris: la crescita delle registrazioni elettorali di democratici, soprattutto giovani e minoranze. Al netto dei margini di errore, se questi dati sono in qualche modo indicativi (e si tratta di sondaggi ritenuti fra i più seri), si possono fare alcune, rapide considerazioni:
- L’elezione si prospetta come uno strettissimo testa a testa. Lo sapevamo già mesi fa, ma è accaduto di tutto: tentativi di attentato, cambiamenti di candidati in corsa, scelte sorprendenti dei VP, convenzioni dei partiti, dibattiti televisivi, i cani e i gatti di Springfield, ecc, eppure siamo ancora lì;
- Se questi dati sono validi, allora significa che Harris è riuscita a preservare o addirittura consolidare la crescita dei voti bianchi nel Midwest che già vi era stata con Biden e che Trump conferma la tendenza a guadagnare consensi tra le minoranze ispanica (soprattutto) e nera (meno, ma qualche punto percentuale concentrato primariamente nell’elettorato afroamericano maschile);
- Se confermati nei giorni a venire, questi dati sembrano creare due gruppi di swing states, con un secondo (Arizona Rep, Wisconsin Dem, forse Georgia Rep) che potrebbe uscire dalla contesa e un primo (Mich, Penn, North Car, Nevada) che resta invece decisivo. E dove si stringono le strade per giungere alla vittoria, con Harris che può compensare una perdita del Michigan solo con la North Carolina e una della Pennsylvania solo con la combinazione Nevada-North Carolina;
- Trump continua a beneficiare del giudizio negativo che una maggioranza di elettori dà del quadro dell’economia. Che stride con tanti dati macroeconomici – occupazione, crescita, aumento retribuzioni medie – e anche con il recente, significativo taglio dei tassi da parte della FED. Ma che indica il peso che l’inflazione, ora riportata sotto controllo, ha avuto e sta avendo: sul potere reale d’acquisto e sulle stesse percezioni di molti elettori. E beneficia della crisi migratoria e delle paure più o meno motivate che essa genera;
- La fragilità maggiore di Trump – ci dicono i sondaggi – è dettata dai dubbi sul suo carattere e sulla sua onestà, oltre che dal tema dei diritti riproduttivi (che sta cercando disperatamente di evitare, irritando pure una fetta del suo elettorato evangelico). E a ricordarci la natura spesso eversiva dell’agire trumpiano è il tentativo, perseguito finora senza successo, dei repubblicani di cambiare in corso d’opera le regole elettorali in Nebraska (l’unico stato assieme al Maine dove non vige la regola del winner take all) per evitare di perdere quel grande elettore oggi potenzialmente decisivo se Harris dovesse vincere i tre stati del Midwest.
