No, non sono buoni, per Kamala Harris, i sondaggi pubblicati in questi giorni dal New York Times. Secondo i quali vi sarebbe una situazione di sostanziale pareggio nel voto popolare, si sarebbe ampliato lo scarto a favore di Trump in Arizona e Georgia e assottigliato il vantaggio di Harris in Wisconsin e Michigan (che rimarrebbe invece relativamente solido – 4 punti – in Pennsylvania). Vanno fatte mille tare a questi sondaggi, ci mancherebbe; e la corsa rimane ovviamente apertissima. Le rilevazioni del Times appaiono però coerenti con l’impressione che si ha della campagna elettorale in questa fase. Dove la “spinta propulsiva” della candidatura Harris – per usare un vecchio politichese nostrano – parrebbe essersi esaurita, dopo l’entusiamo generato inizialmente (e cavalcato abilmente da Harris), la convention di Chicago e il dibattito televisivo chiaramente vinto dalla candidata democratica (o, meglio, malamente perso da Trump).
Che fosse una corsa difficile, quella di Harris, lo si sapeva, non ultimo per gli oggettivi ostacoli che una donna di colore deve affrontare (a volte lo dimentichiamo, ma parliamo pur sempre di un paese che non ha mai eletto una donna alla Presidenza, dove – ed è il numero più alto di sempre – al Senato abbiamo oggi 25 donne su un totale di 100; dove le governatrici sono 12 su 50 (di nuovo numero più alto di sempre); dove la prima afro-americana eletta al Senato è stata Carol Moseley Braun nel 1993; la prima nominata alla Corte Suprema Ketanji Brown Jackson nel 2022; e tanti altri esempi potrebbero essere offerti).
E però si stanno manifestando anche alcune oggettive debolezze di Harris, in una certa misura note a chi ne ha un po’ seguito la parabola politica, che s’intrecciano con altre legate invece al contesto politico statunitense. Tre aspetti (e, appunto, debolezze) vanno menzionati.
- La prima è che su alcuni temi, economia e politica estera in subordine, Harris fatica. Le sue proposte tendono a oscillare tra la vaghezza e la demagogia. Le riflessioni che le accompagnano appaiono non sempre consapevoli o articolate, come è emerso nei pochissimi confronti che ha finora avuto con giornalisti peraltro tendenzialmente amici. Sembra riemergere cioè una fragilità che fu ben visibile nella famosa, e fallimentare, campagna delle primarie del 2020 (per lei fu in realtà del 2019, che si ritirò prima degli stessi caucus dell’Iowa). Quella di una candidata che sui banali contenuti della proposta politica spesso zoppica. Certo, su alcuni ambiti – diritti riproduttivi o questione razziale, in particolare – mostra passione e forte capacità di comunicare. Su altri però annaspa, come si vide bene nel dibattito televisivo, iniziato malissimo, evitando di rispondere alla domanda che le fu posta e ripetendo molto scolasticamente alcune proposte su tasse, sostegno alla piccola impresa, ecc. (poi, se dall’altra ti ritrovi Trump che delira su gli haitiani che fanno le grigliate di cani e gatti, i neonati decapitati e le gangs venezuelane è difficile non uscirne bene, come una sorta di novella FDR, ma quella è un’altra questione ancora);
- E questo ci porta alla seconda debolezza, rispetto alla quale Harris può fare relativamente poco: il suo essere vicepresidente di un’amministrazione abbastanza impopolare, a dispetto dei suoi successi legislativi (abbastanza, che non parliamo di Bush Jr. nel 2008 o di Truman nel 1952; cifre alla mano il paragone più appropriato forse è proprio con Trump quattro anni fa). Harris ha giocato la carta dell’anagrafe e provato ad offrire politiche diverse rispetto a Biden – anche se la diversità appare spesso cosmetica – ma di fatto, e non può essere altrimenti, un’amministrazione Harris non potrebbe che essere in continuità con quella Biden;
- Terzo e ultimo: la tragedia di Gaza e, più in generale, la spaccatura che si è venuta a determinare nell’elettorato democratico (e, in parte, nella stessa rappresentanza al Congresso) rispetto all’alleanza con Israele. Vedremo in novembre quanto peserà: se vi sarà una defezione di elettori democratici che, per quanto piccola, in un’elezione così serrata risulterebbe quasi certamente decisiva. Su questo, le eventuali colpe di Harris saranno condivise con molti altri a partire dal Presidente, dal suo Segretario di Stato e dalla leadership del partito. Letteralmente (e reiteratamente) umiliati, i primi, da Netanyahu, peraltro sempre più legato, come del resto il Likud, alla destra statunitense più radicale. Incapace, la seconda, di offrire un minimo di tribuna alla convention a chi contesta il sostegno incondizionato a Israele e chiedeva quantomeno di portare una testimonianza della tragedia umanitaria in corso da mesi a Gaza.
