Trump ha vinto grazie a una grande mobilitazione della working class. Che ha ripagato con politiche capaci di proteggerla e di dare risposte alle sue paure e sofferenze. Sono due assiomi che vengono spesso proposti in tanti commenti sugli Stati Uniti, in Italia forse più che altrove. E che sembrano continuare ad avere una certa popolarità e diffusione. Soprattutto il primo, visto che le politiche promosse dalla prima Presidenza Trump – tra attacchi alla sanità pubblica, tagli alle tasse sui redditi più alti, promesse disattese su investimenti infrastrutturali e re-industrializzazione – difficilmente possono essere presentato come una difesa della working class.
Numerosi studi hanno largamente ridimensionato la leggenda di Trump presidente della (e per la) working class. E però la leggenda persiste e piace. Prima di provare a capire il motivo, è utile ricapitolare cosa questi studi hanno prodotto, il dibattito che ne è conseguito e perché, appunto, di leggenda si tratta. A monte vi è ovviamente un problema di definizione: cos’è questa mitologica (e, in tante rappresentazioni, indistinta) working class? Quale è il suo peso elettorale relativo? In che modo i suoi orientamenti di voto sono cambiati negli anni?
In senso stretto, dovrebbero essere i lavoratori del manifatturiero a cui possiamo aggiungere quelli del settore estrattivo e dell’edilizia. Messi assieme, però, costituiscono non più del 12/13% della forza lavoro complessiva – più o meno equivalente agli occupati nella sanità e nei servizi sociali – e una percentuale ben più bassa dell’elettorato complessivo. Studi specifici e non aneddotici su come questi lavoratori abbiano votato nel 2016 e nel 2020 sono difficili da produrre. L’idea che otto anni fa si siano spostati entusiasticamente su Trump, soprattutto nei cruciali swing states del Midwest, è però smentita da qualsiasi analisi del voto. In quegli Stati, Trump ottenne risultati di gran lunga inferiori a Obama nel 2008: 600mila voti in meno (su 4 milioni e mezzo) in Michigan; 270mila in Wisconsin (su neanche tre milioni); 300mila in Pennsylvania (su poco meno di 6 milioni). Andò, sì, un po’ meglio di McCain (anche se nelle principali contee industriali i risultati furono abbastanza simili), ma il dato di gran lunga più significativo – e da esaminare – fu la defezione di elettori che avevano votato democratico nelle tornate precedenti, non il loro spostamento su Trump.
Un’altra definizione della working class si affida invece al parametro di reddito e non a quello occupazionale. Sarebbero stati gli elettori con redditi bassi e medio-bassi, disillusi dalle politiche democratiche, a spingere Trump verso la nomination prima e la sorprendente vittoria poi. Anche in questo caso, però, i dati rivelano una realtà ben diversa e mostrano come Clinton nel 2016 e Biden nel 2020 abbiano vinto largamente (di circa 10/15 punti) tra gli elettori con redditi familiari inferiori ai 30 mila o ai 50mila dollari annui. Trump ottenne i risultati migliori in una fascia mediana di reddito (nel 2020 vinse 58 a 41 quelli tra i 100 e i 200mila dollari annui) e più o meno gli stessi di Clinton e Biden con i redditi superiori. Studi mirati e specifici, hanno mostrato come in alcune contee più povere del paese, i voti per Trump siano aumentati al crescere di reddito e ricchezza, e non viceversa. I meno abbienti, per farla breve, non sono quelli che hanno trainato l’ascesa politica di Donald Trump.
È a questo punto che in alcune analisi s’introducono delle variabili aggiuntive per ridefinire e qualificare questa working class: la razza, il livello d’istruzione e, talora, il genere. Tra i redditi bassi e medio-bassi, si argomenta, sono sovra-rappresentate le minoranze, soprattutto quella afroamericana (il reddito medio di una famiglia di colore è circa il 30% inferiore a quello della media nazionale e il 40% di quello delle famiglie bianche). In questa analisi, la working class cessa di essere definita in base all’occupazione e al reddito e diventa quel pezzo di America bianca, maschile e senza un titolo di studio post-secondario (college degree). Che nel 2016 e nel 2020 ha costituito circa 1/5 dell’elettorato; e che ha, sì, votato largamente per Trump (70 a 28, quattro anni fa). Qui però si pongono tre problemi, acuiti dal fatto che i dati non permettono d’intrecciare bene razza e reddito. Il primo è che nel 2016 non si è assistito a una rivoluzione radicale, ma solo alla conferma di una tendenza – lo spostamento di elettori bianchi con bassa istruzione verso i repubblicani – in atto da tempo e centrale nel riallineamento degli anni Settanta culminato poi nell’elezione di Reagan nel 1980. Il secondo è l’incrocio tra razza e livello d’istruzione non ci dice necessariamente qualcosa di significativo sulla classe, anche in un paese come gli Usa dove almeno fino al 2008 la correlazione tra istruzione e condizione occupazionale è stato più stretto che altrove. Tra i maschi, bianchi senza college degree vi sono anche miliardari come Bill Gates o Mark Zuckerberg. La terza ce la indica l’inclusione di un altro possibile parametro, quello religioso: tra questi bianchi senza college degree, Trump stravince tra gli evangelici (la cui presenza è molto maggiore nella “Cintura della Bibbia” del sud e del sud-ovest che non nel Midwest), ma non tra i non-evangelici.
Perché allora la persistente popolarità della tesi per cui Trump sarebbe campione della working class e prodotto di una sua grande mobilitazione elettorale? Le spiegazioni sono plurime e tra queste vi è anche una certa pigrizia intellettuale. Fu quella la lettura – aneddotica, impressionistica ma in fondo suggestiva – offerta inizialmente dei suoi successi nelle primarie repubblicane e poi nelle presidenziali del 2016. E da quella interpretazione, così chiara e semplice, molti commentatori hanno fatto poi fatica ad affrancarsi. Anche perché hanno poi agito pregiudizi, politicamente trasversali, che ne hanno facilitato la diffusione e la persistenza. La destra pro-Trump ne ha fatto un vessillo per vantarsi di rappresentare le classi popolari e le vittime delle politiche ‘globaliste’ degli ultimi decenni, e per alimentare una rancorosa retorica antipolitica e anti-cosmopolita. La destra anti-Trump, almeno in una prima fase, l’ha utilizzata in un discorso non di rado classista, per cui il tipico elettore trumpiano era poco istruito, incapace di riqualificarsi professionalmente e prono ad attribuire ad altri – le élite, il governo, gli immigrati – le responsabilità dei suoi fallimenti e della sua irresponsabilità (leggendari, in tal senso, furono nel 2016 una serie di editoriali dello storico magazine conservatore National Review). A sinistra piace perché permette di criticare senza distinzioni le politiche economiche adottate anche da amministrazioni democratiche e per offrire una visione inequivocabilmente declinista della parabola degli Usa e del loro capitalismo, che coglie alcuni aspetti importanti – gli effetti di deindustrializzazione e diseguaglianze su tutti – ma ne omette molti, molti altri (per ogni città ex industriale decaduta come Gary, Indiana o Flint, Michigan o Youngstown, Ohio ve ne è una cresciuta o rinata come Austin, Texas, Raleigh, North Carolina o la stessa Pittsburgh, Pennsylvania).
Qualificare e ridimensionare la leggenda della working class di Trump non significa minimizzare il peso delle matrici socioeconomiche nelle scelte di voto di molti americani, tutt’altro. Ci obbliga però a uscire da scorciatoie intellettuali comode, e talora consolatorie, e a intrecciare queste matrici con altri fattori e dinamiche, inclusi quelli razziali che tanti commentatori si rifiutano di vedere.
Atlante, Treccani – 2 ottobre 2024 (https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/l-inscalfibile-mito-della-working-class-trumpiana.html#google_vignette)
