Verso il 5 novembre

Meno di due settimane al voto. E un quadro contraddistinto da una straordinaria fissità di sondaggi, che evidenziano una volta di più la polarizzazione radicale di un paese spaccato in due blocchi politico-elettorali contrapposti. Dove la mobilità di opinioni, e voti potenziali, è ormai ridottissima. Così come ridotta, e calante, è la piccola percentuale d’indecisi. Potenzialmente decisivi, questi ultimi. Come decisiva sarà però la capacità di Harris e Trump di mobilitare pienamente il proprio elettorato, riducendo al minimo defezioni che potrebbero risultare fatali per le chance di vittoria. Ed è su questo delicatissimo equilibrio – sulla capacità di offrire un messaggio che galvanizza il proprio elettorato senza alienare moderati e incerti – che si giocherà probabilmente il voto.

La democrazia statunitense, la più antica tra quelle in vita, si fonda su meccanismi e regole antichi e talora anacronistici. Le elezioni presidenziali non sono un’eccezione, anzi. È un voto indiretto, dove gli Stati scelgono i grandi elettori – la somma di senatori e deputati, più tre rappresentanti per il District of Columbia dove sta Washington – che decideranno l’esito finale. Dove si può vincere, anche nettamente, il voto popolare ma essere comunque sconfitti, come accadde a Hillary Clinton nel 2016. Dove 48 stati su 50 applicano il principio del ‘winner-take-all’, del vincitore pigliatutto, per il quale chi prevale anche solo di un voto ottiene tutti i grandi elettori di quello Stato (le uniche eccezioni sono Nebraska e Maine). E dove gli elettori di alcuni Stati pesano relativamente molto di più, visto che vi sono 2 senatori (e quindi grandi elettori) a prescindere dalla popolazione, per la California (39milioni di abitanti) come per il Wyoming (che di abitanti ne ha 575mila).

Un sistema anacronistico, si diceva, che genera molte storture. Su tutte il fatto che l’elezione si giocherà tutta in pochi stati decisivi – i famosi swing states – che nella stragrande maggioranza il risultato è già scontato. Swing states che in questa tornata sono appena 7 su 43, raggruppabili in tre grandi regioni: il Midwest deindustrializzato (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania), un sud economicamente più dinamico e con grandi agglomerati metropolitani (North Carolina e Georgia), e un sud-ovest anch’esso contraddistinto dalla linea di frattura che oggi più determina e permette di predire gli orientamenti di voto ossia la densità abitativa (l’Arizona e la North Carolina, con due contee – quelle di Phoenix-Maricopa e di Clark-Las Vegas – che da sole fanno rispettivamente più del 60 e del 70% degli abitanti dei due stati).

7 stati su 43, e 93 grandi elettori su 538, decideranno quindi chi sarà il prossimo (o la prossima) Presidente della principale potenza mondiale. I sondaggi, si diceva, indicano un testa a testa e fanno immaginare un esito deciso da pochi decimali di punto, e alcune migliaia di voti, in questi swing states. Entro oscillazioni assai contenute, Donald Trump appare oggi leggermente favorito. Sembra avere aperto una piccola finestra in Georgia e Arizona che se confermata chiuderebbe ad Harris alcune delle vie possibili alla vittoria e la obbligherebbe a puntare quasi tutto sul Midwest. Può beneficiare di un elettorato più coeso e unito. E si confronta con un’avversaria che ha rimesso sì in corsa i democratici – con Biden la sconfitta sarebbe stata quasi certa – ma che evidenzia delle fragilità note, soprattutto quando chiamata a confrontarsi con temi economici, e su Gaza e la relazione speciale con Israele rischia di perdere pochi ma cruciali voti. Trump rimane figura divisiva e impopolare; i toni volgari e violenti che spesso usa in questa campagna potrebbero nuocergli, soprattutto con un elettorato femminile moderato e conservatore che Harris sta attivamente corteggiando. Dentro le tante incertezze di questa  elezioni di un paio di cose possiamo essere sicuri: che lo spoglio dei voti andrà probabilmente per le lunghe e dovremmo attendere per avere un risultato certo; e che difficilmente Trump accetterà una sconfitta che, nel caso, sarà quasi certamente di misura (tra gli scenari realistici c’è pure un 270 a 268 per Harris).

Il Giornale di Brescia, 24 ottobre 2024

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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