Appariva favorito, sia pure di poco, Donald Trump. E invece lui e i repubblicani hanno vinto ben al di là delle attese e delle previsioni, pur in un quadro che conferma la persistente polarizzazione del paese. Ha prevalso chiaramente nel collegio elettorale – presumibilmente conquisterà tutti sette gli swing states decisivi – e nello stesso voto popolare, dove aveva invece nettamente perso sia nel 2016 sia nel 2020. I repubblicani hanno riconquistato il Senato e, vista la tendenza nazionale, quasi sicuramente manterranno la Camera dei Rappresentanti. Avremo insomma nel biennio 2025-27 un governo unitario forte di una chiara investitura elettorale e integrato da una Corte Suprema anch’essa con una chiara maggioranza conservatrice.
Come leggere e spiegare questo risultato per molti aspetti sorprendente? Quali sono le possibili interpretazioni? Cosa ci dicono i primi tentativi di analizzare e disaggregare il voto?
A caldo le analisi non possono che essere impressionistiche e la cautela è quindi d’obbligo. I primi dati offerti dagli exit-poll offrono una radiografia del voto che conferma cose intuite immediatamente e ne aggiunge altre invece inattese. Harris non ha mobilitato quel vasto voto femminile su cui molto aveva puntato, anche a costo di moderare toni e contenuti della sua proposta politica. Tra le elettrici ottiene più o meno lo stesso risultato di Biden e fa quindi peggio di Clinton 2016. Va meglio delle aspettative tra gli elettori maschi bianchi, inclusi quelli con bassi livelli d’istruzione, da sempre la spina dorsale della coalizione trumpiana. Quest’ultima si amplia però a segmenti elettorali nuovi, soprattutto elettori maschi, ispanici e giovani. Il perimetro degli elettori di Trump, che non sembrava strutturalmente espandibile, intercetta quindi voti nuovi e si fa in una certa misura più composito e plurale, anche in termini di reddito, con un risultato decisamente migliore tra quelli bassi o medio-bassi (rispettivamente sotto i 30 e i 50mila dollari per nucleo familiare).
Tutti questi dati evidenziano un primo fattore che ha spinto Trump alla vittoria: una richiesta di protezione e sicurezza da parte di pezzi di paese spaventati e in difficoltà. Che beneficiano solo in parte degli indubbi risultati economici degli ultimi anni, certificati dalla crescita del PIL e dalla consistente riduzione della disoccupazione, come di incisive politiche di re-industrializzazione i cui tempi lunghi di realizzazione mal si conciliano però con quelli, serrati e quasi permanenti, della politica e dei cicli elettorali. Che individuano nemici reali e immaginari nell’immigrazione mal gestita, nella dipendenza da catene globali di valore che erodono autonomia e sovranità degli stessi Stati Uniti, in politiche di aiuti esteri, come quelli all’Ucraina, che si ritiene sottraggano risorse all’America e agli americani.
Un secondo fattore, debitamente sottolineato in tanti commenti, è quello dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi. Che ha eroso il potere di acquisto, soprattutto di beni di prima necessità come gli alimentari e l’energia; che ha ridotto i benefici percepiti o effettivi della crescita e dell’aumento dei salari medi; e che ha indotto una stretta sui tassi che ha mandato ancor più in sofferenza chi ha un mutuo (o chi ambiva ad accenderne uno), acuendo un’emergenza abitativa che in alcune parti del paese si è fatta davvero drammatica.
Il terzo fattore è molto più contingente e politico. E rimanda alla debolezza e alle colpe dei democratici, molto più che ai meriti di Trump e dei repubblicani. Biden, lo si è scritto più volte, si sarebbe dovuto fare da parte nel corso del 2023 permettendo delle primarie che avrebbero testato, presentato, selezionato e legittimato il candidato (o la candidata) alle presidenziali del 2024. Intestardendosi di fronte a un elettorato che ne vedeva la patente senilità ha indebolito il suo partito, incapace di costringerlo a farsi da parte, per poi metterlo di fronte alla condizione impossibile di doverlo sostituire all’ultimo minuto con una candidata debole, anche per colpe non sue, e inevitabilmente legata all’impopolarità del Presidente e della sua amministrazione.
Si apre ora una fase piena d’incognite. Con tutti i principali poteri – Esecutivo, Legislativo e, almeno in parte, Giudiziario – allineati e sbilanciati fortemente a destra. Con il rischio di un’escalation della dialettica antagonistica e conflittuale tra questo nuovo potere federale e quelli dei tanti, importanti Stati e municipalità a guida democratica. E con un Presidente che a otto anni dalla sua prima elezione non solo non ha moderato linguaggio, toni e contenuti della proposta politica, ma ha costantemente rilanciato, come abbiamo visto in questa ultima, brutta campagna elettorale.
Il Giornale di Brescia, 7 novembre 2024
