Assistiamo a un nuovo momento critico della guerra in Ucraina. Che potrebbe rientrare rapidamente, essere preludio di un vero negoziato o – prospettiva più spaventevole – innescare quella escalation che le due grandi potenze nucleari, Russia e Stati Uniti, hanno dimostrato in più occasioni di non volere. L’amministrazione Biden ha deciso di autorizzare l’utilizzo di missili a breve raggio anche su obiettivi collocati nel territorio russo e, contestualmente, annunciato la fornitura a Kiev di mine antiuomo. Le spiegazioni di questa decisione sono diverse e non necessariamente esclusive. Vi è la necessità operativa di contrastare l’avanzata russa e di puntellare la capacità dell’esercito ucraino, che appare essere in crescente difficoltà. Ma vi è probabilmente anche l’intenzione di prevenire ulteriori guadagni territoriali russi prima dell’apertura di negoziati che appaiono ormai inevitabili, a maggior ragione quando alla Casa Bianca s’insedierà la nuova amministrazione di Donald Trump. I missili e le mine servono insomma a preservare una condizione negoziale di partenza non troppo sfavorevole per l’Ucraina e i suoi alleati. La risposta russa è stata quella di lanciare un missile balistico a gittata intermedia, con un raggio potenziale superiore ai 5mila chilometri e quindi capace di colpire anche l’Europa. Un’arma sperimentale, questa, basata sul design di uno dei più famosi missili intercontinentali (a lunga gittata) di cui dispone la Russia, l’R-26 Rubez. E un’arma capace di portare testate nucleari.
Vladimir Putin ha esplicitamente collegato questa azione alle ultime decisioni dell’amministrazione Biden, stabilendo una sorta di simmetricità tra le due. E ha prospettato il rischio che il conflitto diventi davvero globale, laddove pochi giorni prima Mosca annunciava un’altra revisione della propria dottrina strategica che, in teoria, alleggeriva ulteriormente i protocolli relativi all’uso di armi nucleari. In realtà si è trattato una volta ancora di una risposta contenuta e la cui valenza è stata primariamente simbolica. Ci continuiamo a muovere insomma nel contesto di un’escalation all’apparenza controllata, nella quale il meccanismo di azione-reazione non sembra sfuggire di mano.
I rischi però sono elevatissimi e ogni incremento dell’escalation, per quanto piccolo, finisce per aumentarli. Da un lato c’è la possibilità, sempre latente, di fraintendimenti, errori d’interpretazione o cattive comunicazioni. Mosca aveva informato Washington di questa azione al punto da indurre il Dipartimento di Stato a chiudere temporaneamente la propria ambasciata a Kiev. E al di là delle dichiarazioni sensazionali su quanto silente sarebbe oggi quella ‘linea rossa’ creata dalle due superpotenze nucleari nel 1963 per evitare il precipitare di crisi accidentali, forte è l’impressione che il dialogo e le comunicazioni rimangano intense. Ma il pericolo rimane alto. Nelle nebbie del conflitto, il lancio di un missile capace di portare testate atomiche può essere frainteso come l’inizio di uno scambio nucleare; l’illusione del controllo dell’escalation può indurre ad alzare la soglia dell’azzardo; un’azione che una parte considera come reattiva e difensiva può essere letta invece dall’altra come provocatoria e offensiva. Le spirali viziose e ingestibili sono insomma sempre dietro l’angolo, come la storia si premura sempre di ricordarci. Anche perché la logica della deterrenza, su cui in ultimo si fonda la convinzione di poter governare l’escalation, poggia su un presupposto ineludibile: che la disponibilità a fare uso di tutto l’arsenale di cui si dispone sia credibile e che ogni step – come quelli cui abbiamo assistito in questi giorni – avvicini a quello ultimo e fatale. Il grilletto nucleare, per usare una facile metafora, non può mai permettersi di essere scarico pena la fine del suo effetto dissuasivo. E bluffare, alla lunga, può diventare impossibile.
Il Giornale di Brescia, 23 novembre 2024
