Circa 15 anni fa accompagnai un gruppo di studenti di Unibo che partecipava a una simulazione NATO a Washington. In parallelo, facemmo un paio d’incontri all’ufficio affari europei del dipartimento di Stato e in una famosa think tank di orientamento moderatamente liberal. Nella seconda incontrammo un esperto/pundit, uno di quelli che si muovono continuamente nelle porte girevoli tra questi centri di ricerca e il governo (in vari momenti ha lavorato alla CIA e al Pentagono). Pedigree impeccabile, tra dottorato Ivy, pubblicazioni prestigiose, insegnamenti ecc.. Ci spiegò con molta sicumera come gli Usa avessero finalmente trovato la quadra in Iraq e stessero ottenendo risultati significativi in Afghanistan. S’irritò con me quando provai a fare un parallelo con la retorica della vietnamizzazione di Nixon e Kissinger e ribadì che in Afghanistan gli Usa stavano “vincendo”. È ancora lì, ovviamente; con le sue granitiche certezze, ora orientate a qualcos’altro. Il tutto per dire che gente come Hegseth è imbarazzante al di là dell’immaginabile, ma è anche la reazione alla hybris di un certo mondo straordinariamente autoreferenziale, dove la presunta (e spesso smentita) expertise viene brandita come una clava anche per evitare di mettersi in discussione o fare i conti con i propri numerosi errori (e d’altronde il Vietnam – per tornare all’analogia che tanto irritò il mio interlocutore – fu giustificato in primis dai best & brightest, per la gran parte MIT e Harvard, kennediani)
