Il papa americano

Non può che colpire l’elezione del primo Papa statunitense e nordamericano. E non può non indurre a collegarla alle dinamiche politiche degli Stati Uniti, a Donald Trump e quelle che sono state – negli anni del pontificato di Francesco – le frequenti tensioni tra la Chiesa e il Presidente statunitense. Su questo bisogna fare ovviamente molta attenzione, che nella scelta di un Papa pesano una pluralità di fattori e variabili, molti dei quali tutti interni alla Chiesa stessa. Fatta questa banale premessa, cosa può dirci questa elezione se la analizziamo da un osservatorio americano? Tre paiono essere le possibili risposte.

La prima è che no, non si tratta di una vittoria di Donald Trump, per quanto egli cercherà in qualche modo d’intascarsela presentandola come esempio ulteriore di un’America capace sotto la sua guida di tornare finalmente “grande”. Il primo discorso di Leone XIV ce lo ha in qualche modo indicato, con l’enfasi fortissima sulla necessità del dialogo e dell’unità, con il ricorso frequente alla metafora dei ponti da costruire, preservare e rafforzare. E d’altronde su una molteplicità di temi importanti, a partire da quello dei migranti, Robert Francis Prevost si pone in evidente continuità con Francesco, che ieri ha menzionato con affetto e in modo tutt’altro che formale. I vaticanisti lo presentano sì come uomo pragmatico e concreto, ma anche come figura assai distante dal conservatorismo di alcuni pezzi delle gerarchie cattoliche d’oltreoceano.

E questo ci porta alla seconda risposta. È una realtà composita e complessa quella del cattolicesimo statunitense. Rimane la principale confessione religiosa del paese alla quale aderiscono poco più del 20% degli americani adulti. E pur soffrendo anch’essa del forte calo di religiosità degli ultimi due decenni, ha retto meglio l’urto rispetto ad altre chiese cristiane, in particolare quelle dell’eterogenea galassia dell’evangelicalismo protestante. È però una chiesa che è stata colpita da scandali pesanti, che rimane attraversata da lacerazioni profonde, e nella quale alcune figure politiche ultraconservatrici – pensiamo al vicepresidente J.D. Vance – hanno pensato di poter assumere quasi un ruolo supplente, offrendo una visione della cattolicità assai distante da quella di Francesco. Leone XIV ha apertamente criticato Vance – come del resto aveva fatto il suo predecessore – quando questo ha provato a offrire una lettura selettiva e discriminatoria dell’ordo amoris di Tommaso d’Aquino per giustificare l’esclusione di chi si colloca fuori dalla comunità familiare, locale e nazionale (“J.D. Vance sbaglia”, scrisse seccamente il nuovo Papa su X, “Gesù non ci chiede di classificare il nostro amore per gli altri”). Un mondo diviso e finora privo di precise gerarchie, quello cattolico statunitense, si ritrova ora a doversi relazionare con una voce superiore, incontestabile e ultima: quella di Leone XIV, appunto.

La terza e ultima risposta è che il nuovo Papa è americano nel senso più ampio ed emisferico del termine. Non è solo un Papa nordamericano o statunitense: è, a tutti gli effetti, il secondo Papa delle Americhe, con la sua lunghissima e formativa esperienza missionaria, parrocchiale ed episcopale in Perù. Nel suo primo discorso, Papa Leone ha scelto di parlare brevemente anche in spagnolo, sottolineando l’importanza di quella esperienza e il suo legame col mondo ispanofono e latino-americano. Un altro possibile elemento di una continuità sostanziale più che formale con il pontificato di Francesco che andremo ben presto a misurare.

Il Giornale di Brescia, 9 gennaio 2025

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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