Trump, il G-7 e il Medio Oriente

Il G-7 di Calgary produce il solito documento inutile e anodino, nel quale si riafferma il diritto (ovvio) d’Israele a difendersi così come l’inaccettabilità di un Iran nucleare, sollecitando contestualmente una “de-escalation delle ostilità in Medio Oriente” e un “cessate il fuoco a Gaza”. Un testo, questo, che è stato ulteriormente annacquato per ottenere la firma, inizialmente rifiutata, di Trump. Il quale ha poi offeso un po’ Macron, criticato gli altri per avere escluso la Russia dal consesso, pubblicato un paio di post scombiccherati sul suo social Truth e infine abbandonato il summit anzitempo per rientrare a Washington a monitorare la nuova crisi mediorientale.

È chiaro come in questa fase storica di profonda crisi del multilateralismo, tutti i suoi strumenti e le sue istituzioni rimangono deboli e inefficaci. Ciò vale anche per il G-7, un forum ad hoc creato mezzo secolo fa – inizialmente come G-4 – per cercare di gestire in maniera più snella (e gerarchica) le relazioni internazionali. Ma un forum che di suo può davvero poco quando l’attore superiore del gruppo, gli Usa, defeziona o addirittura lo boicotta. Quella trumpiana è una visione alternativa, se non opposta, tanto al multilateralismo altamente normato delle organizzazioni internazionali quanto a quello più discrezionale del G-7. Acuita dall’aperta ostilità, e spesso l’ostentato disprezzo, del Presidente statunitense nei confronti degli altri membri del gruppo.

Espressa in modo spesso abborracciato e incoerente, quella di Trump è una concezione neo-imperiale delle relazioni internazionali, nella quale pochi soggetti controllano e dominano le loro aree di competenza e uno solo, gli Usa, preserva una proiezione globale di potenza che lo pone al di sopra degli altri. Gli europei e il Canada sono al meglio subalterni e al peggio antagonisti, che sfruttano parassiticamente la protezione statunitense e si permettono addirittura di sfidarne gli interessi, come quando cercano di normare o sanzionare i giganti digitali americani.

Da questa concezione discendono però molteplici cortocircuiti, come ben stiamo venendo in questa nuova, tragica guerra mediorientale. Che in teoria non conviene a Trump, per il quale sarebbe preferibile un Medio Oriente pacificato, con un Iran indebolito ma formalmente sovrano, una sorta di bipolarismo non conflittuale Israele-Arabia Saudita e profittevoli opportunità per gli affari di famiglia. Ma che evidenzia sia l’irriducibilità della complessità regionale agli schemi neo-imperiali di Trump sia la capacità dell’alleato speciale israeliano di manipolare gli Usa e metterli di fronte al fatto compiuto. Pesa, su questo, anche un elemento strutturale del modo statunitense di fare politica estera che non pare essere venuto meno nemmeno con Trump: il pluralismo che ne condiziona il processo decisionale e le scelte che ne derivano. In virtù del quale paiono esservi oggi almeno due linee antagonistiche. La prima è quella espressa dal lato statunitense dell’asse, radicale e ormai quasi osmotica, tra le due destre, israeliana e americana. Ben rappresentata da falchi anti-Teheran come il Segretario di Stato, Rubio e tanti importanti senatori repubblicani (oltre che alcuni democratici). La seconda è diffusa tra il movimento MAGA e chi ambisce a incarnarlo e sfruttarlo politicamente, come la direttrice dell’intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, che in passato aveva preso apertamente posizione a favore di Assad in Siria. Mondo MAGA ostile a nuovi impegni militari statunitensi in Medio Oriente e meno automaticamente filoisraeliani di quanto non siano i primi. I quali sembrano, almeno per il momento avere l’orecchio di un Presidente che sappiamo essere però disattento, volubile e facilmente prono a cambiare opinione e politica.

Il Giornale di Brescia, 18 giugno 2025

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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