I toni trionfalistici di questo vertice NATO dell’Aja non sembrano essere particolarmente motivati. Sì, c’è un generale consenso sulla necessità di aumentare i bilanci della difesa dei paesi membri. No, questo non sembra preludere a una maggiore coesione o risolvere problemi profondi e per certi aspetti strutturali dell’alleanza.
Il bilancio e la fatidica, nuova soglia del 5% del PIL, innanzitutto. Soglia irrealistica e velleitaria, questa, anche nell’orizzonte lontano (il 2035) in cui dovrebbe realizzarsi. E soglia comunque fittizia, che quella reale sarebbe in realtà del 3.5%, a cui si aggiunge un opaco 1.5% da destinarsi a investimenti infrastrutturali funzionali alla Difesa (entro cui può, in altre parole ricadere, un po’ di tutto). Al netto degli artifizi contabili cui assisteremo negli anni a venire, l’accordo certifica una tendenza in atto più che costituire una svolta. Oggi la quasi totalità dei membri dell’Alleanza supera la soglia del 2% del PIL di spese in difesa concordata più di dieci anni fa. Tra il 2014 e il 2024, il bilancio combinato degli investimenti militari dei paesi NATO è cresciuto di circa il 50%. La vera impennata, però, vi è stata dopo l’invasione russa dell’Ucraina e, ora, con l’elezione di Donald Trump.
Sono questi i due agenti fondamentali che spiegano quanto sta avvenendo. Il primo è il ritorno di quella minaccia esterna, la Russia, che aveva costituito la matrice fondamentale della genesi dell’Alleanza. Il secondo è il rischio di una defezione statunitense. Da scongiurarsi sia rafforzando le capacità, autonome e integrate, degli altri membri sia dimostrando a Washington una maggiore disponibilità a farsi carico del “fardello” della difesa comune: quella ripartizione degli oneri – il burden sharing -che dal1949 a oggi ha sempre costituito motivo di tensione tra gli Stati Uniti e i loro alleati.
E qui iniziano però i limiti e i potenziali cortocircuiti di questo ultimo compromesso. Che è poco realistico, si diceva. Ma che rischia anche di rivelarsi inutile. Da un lato, la NATO rimane struttura federata da un egemone: gli Stati Uniti. Che ne garantiscono l’efficacia operativa ultima. E che storicamente ne hanno preservato la coesione. Non è immaginabile che questo stato di cose possa cambiare a breve e che Europa e Canada possono surrogare, anche solo in parte, un minor impegno americano, come peraltro stiamo ben vedendo sull’Ucraina. Le parole di Trump – e le sue grevi minacce alla Spagna di Sanchez – evidenziano inoltre come i fronti di tensione tra le due sponde dell’Atlantico rimangono aperti; il contributo alla difesa comune è solo uno di questi e probabilmente non il più importante. Dai privilegi dei giganti digitali americani al commercio alle relazioni con la Cina, numerosi altri dossier rischiano di avvelenare le relazioni tra gli Usa di Trump e l’UE, e non basta certo l’imbarazzante piaggeria del Segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, a temperare l’irruenza e l’antieuropeismo del Presidente statunitense e di tanta parte del suo elettorato.
Il cosmetico benchmark del 5% rischia di essere non solo velleitario, ma pure controproducente. Al netto del suo significato relativo – che tutto dipende, ovviamente, da come si utilizzano tali risorse – esso può produrre poco se non è accompagnato da forme di collaborazione politico-diplomatica da cui discende l’efficacia dell’integrazione militare. Unità d’intenti che si vede solo in parte e che riflette anche diversità geopolitiche ineludibili, ché gli interessi (e le paure) della Spagna non collimano necessariamente con quelle dell’Estonia o della Polonia. Il tutto in un contesto in cui queste scelte – potenzialmente dolorose per molti paesi, costretti sulla carta a ripensare la distribuzione della loro spesa pubblica – non sono adeguatamente spiegate alle opinioni pubbliche nazionali. Dove manca, insomma, quell’indispensabile opera di costruzione del consenso attorno a decisioni così problematiche. Un consenso essenziale a un’efficace politica estera e di sicurezza. E senza il quale, il rischio di essere sanzionati elettoralmente, e di veder mancare le precondizioni per l’ottemperamento degli impegni presi, diventa inevitabilmente alto.
Il Giornale di Brescia, 27 giugno 2025
