È molto difficile dire se ci troviamo davvero di fronte a una svolta nella politica dell’amministrazione Trump verso l’Ucraina. Se l’annuncio della decisione di riprendere le forniture d’armi a Kiev, accompagnato dalle dure parole nei confronti di Putin, preluda a un nuovo, significativo impegno statunitense per sostenere lo sforzo bellico ucraino. Su questo, come su molti altri dossier, in questi mesi abbiamo assistito a continue piroette da parte di Trump: le iniziali, ampie concessioni a Putin; il maltrattamento di Zelensky in occasione del famoso vertice di febbraio alla Casa Bianca; il successivo, amichevole incontro col Presidente ucraino in occasione dei funerali di papa Francesco; l’accordo capestro imposto all’Ucraina sulla gestione e sfruttamento delle sue risorse; l’annuncio di solo pochi giorni fa sulla prossima sospensione degli aiuti militari.
Mettere ordine a questo tourbillon, e capire se vi siano dietro una logica e una strategia, non è semplice. E si deve quindi procedere per riflessioni analitiche e ipotesi conseguenti. Il primo punto da sottolineare è che le ampie e forse improvvide concessioni a Putin prospettate inizialmente da Trump – che prefiguravano una pace basata su annessioni territoriali russe, assenza di chiare garanzie securitarie a Kiev e con un rapido disimpegno statunitense – non solo non hanno placato Mosca, ma l’hanno indotta a intensificare le operazioni militari con l’obiettivo di capitalizzare su questo appeasement statunitense per cercare di rafforzare ulteriormente la propria posizione negoziale. È possibile che Putin abbia davvero tirato troppo la corda. E che la risposta che Trump sta dando sia un modo, non sappiamo quanto efficace, di fare pressione su Mosca: per portarla al tavolo di trattative sul quale le concessioni iniziali presumibilmente rimangono.
Un secondo aspetto riguarda le dinamiche interne: agli Usa, all’amministrazione, agli stessi partito repubblicano e movimento Maga. Sondaggi recenti evidenziano come un’opinione pubblica che fino all’anno scorso sembrava manifestare crescente disinteresse se non insofferenza nei confronti del conflitto ucraino, e sosteneva quindi la linea del disimpegno, oggi condivida l’irritazione di Trump verso Putin. E sia nuovamente disposta a intensificare il sostegno militare all’Ucraina. Una posizione, questa, condivisa da influenti esponenti repubblicani al Congresso e, da quanto filtra, anche da membri importanti dell’amministrazione, a partire dal Segretario di Stato Rubio. Come spesso accade per la politica estera e di sicurezza, anche sull’Ucraina vi sarebbe quindi una pluralità di posizioni e una intensa dialettica dentro l’amministrazione, in virtù della quale le posizioni anti-ucraine del vicepresidente Vance o della direttrice dell’intelligence Gabbard non sarebbero più così egemoni.
Terzo e ultimo: è possibile che anche l’Europa un ruolo l’abbia giocato e lo stia giocando. Accondiscendendo, almeno formalmente, alle (irrealistiche) richieste di Trump sull’aumento delle spese militari. Mantenendo un fronte largamente unito rispetto all’Ucraina, come ben dimostra anche la posizione non equivoca assunta dal governo italiano. Cercando di farsi maggiormente carico della onerosa politica di aiuti economici e militari a Kiev.
Basterà tutto ciò per fermare Putin e far ripartire i negoziati? È difficile dare risposte certe, anche perché con un’economia totalmente convertita alle esigenze di guerra, gli incentivi per Mosca sembrano essere decrescenti. Anche se una variabile cruciale continua a essere l’impegno diretto degli Usa e, quindi, gli umori del loro volubile Presidente.
Il Giornale di Brescia, 11 luglio 2025
