Le tariffe medie in vigore oggi tra Stati Uniti e Unione Europea sono dell’1.35% per le importazioni europee dagli Usa e dell’1.47 per quelle statunitensi dall’Europa. Livelli storicamente bassissimi e assai poco discriminatori per quello che rimane, sulle rotte nordatlantiche, lo spazio economico più ampio e integrato al mondo. Nel quale l’UE ha un largo attivo nella bilancia commerciale (157 miliardi di euro nel 2023) e gli Usa un in quella dei servizi (109 miliardi di euro sempre nel 2023). E dove in un mondo normale, le correzioni volute da una parte o dall’altra sarebbero discusse in complessi negoziati multilaterali fatti di baratti, concessioni e compromessi. In un mondo normale, ma non in quello di Donald Trump. Che torna a prospettare dazi altissimi (30%) e generalizzati sulle importazioni dall’Europa, anche se ancora una volta ne differisce di alcune settimane l’entrata in vigore.
Cosa ispira l’agire di Trump? Vi sono una strategia e una logica dietro queste reiterate minacce di scatenare una guerra commerciale con il principale partner degli Stati Uniti?
La risposta sta nel mix d’ideologia, incultura politica e spregiudicatezza che concorre a determinare l’atteggiamento dell’attuale amministrazione statunitense. Vi è, innanzitutto, la propensione a leggere l’economia internazionale in modo molto basico, isolando una singola variabile – il deficit esterno – che per quanto importante deve invece essere contestualizzata entro un’equazione assai più complessa. Agisce la promessa di usare i dazi sia per fare cassa, compensando magari i deficit destinati a essere provocati dalla nuova legge di bilancio, sia per rilanciare l’industria interna, proteggendola dalla competizione internazionale. Ma vi è soprattutto una dimensione fortemente simbolica, che rende i dazi uno degli strumenti privilegiati della politica estera trumpiana. Il loro costituire emblema e mezzo di un unilateralismo che sembra sostanziare la promessa trumpiana di poter riconquistare la libertà perduta: di riacquisire quella sovranità sacrificata sull’altare della globalizzazione; di emanciparsi dalle interdipendenze delle catene globali di valore da cui gli Usa dipendono e che non possono controllare.
Accanto a questo, vi è la seconda funzione dei dazi: quella di rappresentare mezzi di pressione per piegare i propri partner su dossier altri da quelli strettamente commerciali. Strumenti di una diplomazia coercitiva e, ancora una volta, molto unilaterale. Nel caso specifico dell’Europa, quel che l’amministrazione Trump chiede non è un mistero e viene anzi quotidianamente sottolineato a Washington: più spesa in difesa, per ridurre gli oneri militari degli Stati Uniti; abbandono di progetti di tassazione o regolamentazione delle multinazionali statunitensi, in particolare quei giganti digitali che hanno in Europa un loro mercato fondamentale; maggior impegno nel partecipare al disaccoppiamento dell’economia occidentale da quella cinese; sostegno nel finanziamento dell’oneroso debito statunitense.
In questi mesi i paesi europei hanno concesso moltissimo. Si sono impegnati ad aumentare i loro budget militari (anche se la soglia del 5% sul Pil da raggiungersi in dieci anni è del tutto chimerica). Hanno accettato di esonerare le multinazionali Usa dalla tassa minima globale. Hanno blandito in tutti i modi Trump, con forme – pensiamo alla famosa lettera del Segretario Generale della Nato, Mark Rutte – non sempre decorose. Se Trump darà corso a questa sua ultima minaccia, l’Unione Europea si troverà di fronte a un bivio, ché in una certa misura ne andrà della stessa tenuta del progetto europeo. E l’auspicio è che a Bruxelles così come in tante capitali del Vecchio Continente ci si decida finalmente a raddrizzare la schiena, che almeno sul commercio l’Europa è una grande potenza ed è giunto il momento che si comporti in quanto tale.
Il Giornale di Brescia, 15 luglio 2025
