Entrano progressivamente in vigore i dazi di Donald Trump. E contestualmente escono dati non positivi per l’economia statunitense in termini di crescita e di creazione di nuovi posti di lavoro. È troppo presto, ovviamente, per stabilire correlazioni. Saranno però proprio le variabili interne statunitensi quelle decisive, che determineranno la persistenza o meno della linea adottata dall’amministrazione in materia di politica commerciale. Laddove vi fossero effetti significativi sui prezzi – ché i dazi colpiscono ovviamente molti beni di consumo importati o prodotti intermedi che completano il ciclo produttivo negli Usa – le conseguenze politiche ed elettorali potrebbero essere immediate, a partire dal voto di mid-term del 2026. Al di là di tutti i sondaggi, gli indici da tenere davvero di vista saranno quindi quelli della fiducia dei consumatori, a partire dal più famoso – il “Consumer Sentiment” dell’università del Michigan – che si è un po’ ripreso nelle ultime settimane, ma che rimane su livelli estremamente bassi, comparabili a quelli della crisi del 2008 o dei primi mesi del Covid nel 2020.
Sono dati, questi sullo stato d’animo dei consumatori statunitensi, che debbono interessare anche noi, ovviamente. Perché possono orientare scelte e politiche, come quelle sui dazi, che hanno effetti importantissimi su tanti settori dell’economia europea, italiana e, anche, bresciana. E perché ci mostra quanto integrato sia il mondo odierno, che lega appunto percezioni e sensazioni di un consumatore americano agli interessi di un’impresa italiana che esporta negli Usa. È questa l’essenza ultima dell’interdipendenza: della dipendenza reciproca tra tutti i protagonisti di una catena di valore ormai strutturalmente transnazionale nelle tante fasi produttive e distributive di un ciclo che si completa nel momento in cui il bene finito giunge al consumatore.
A dispetto di tutto, il mercato statunitense continua a essere il principale del mondo. Da solo assorbe quasi il 30% del consumo globale; il consumo privato pro-capite negli Usa è di molto superiore a quello di tutti i paesi più avanzati; dopo il crollo successivo al 2008 è tornato a crescere (con un contestuale calo dei risparmi, la cui percentuale rispetto al reddito disponibile è oggi nuovamente sotto il 5%). E continua a essere, questo mercato, un asset egemonico per Washington: uno strumento negoziale che, combinato con le tante altre risorse di potenza di cui gli Usa dispongono, offre una importante leva negoziale. Questa leva Trump la brandisce e usa con grande brutalità e spregiudicatezza. Con l’obiettivo rivendicato di ridurre i passivi commerciali o di reindustrializzare un paese che in mezzo secolo ha visto diminuire di circa due terzi la percentuale di occupati nel suo manifatturiero. E con quello, anch’esso non dissimulato, di colpire gli interlocutori di turno su altri dossier, obbligandoli ad accettare le condizioni imposte dagli Usa, ancor oggi indiscussa potenza superiore del sistema. Usando ad esempio i dazi per costringere l’Europa e il Giappone a spendere di più in difesa o forzare l’India a importare meno dalla Russia.
Come ci si difende da una simile offensiva? L’Unione Europea ha scelto la via di un compromesso che, nei suoi termini ancora molto vaghi, pare assomigliare molto a una capitolazione. Prendendo tempo e sperando che negoziati protratti possano mitigare gli effetti dei dazi. E contando, anche, nel malcontento e nella sfiducia dei consumatori americani. È però auspicabile che accanto a questo stia attivamente lavorando per emanciparsi almeno in parte da questi consumatori, cercandone degli altri, nel mondo e nella stessa Europa.
Il Giornale di Brescia, 2 agosto 2025
