80 anni da Hiroshima

Hiroshima ha rappresentato uno spartiacque nella storia. Una delle due sole volte in cui l’arma atomica è stata utilizzata; il momento in cui l’inimmaginabile si è realizzato; la presa di consapevolezza che scienza e tecnologia avevano dotato l’umanità della capacità di procedere al suo proprio annientamento. Gli storici si sono subito interrogati sul significato di quello spartiacque; sulle ragioni – militari, strategiche, politiche – che avevano indotto gli Usa a colpire con quell’arma il Giappone. Un dibattito storiografico mai davvero terminato, questo, dove alle prime letture, tutte centrate a giustificare la scelta come necessaria per evitare un ulteriore prolungamento del terribile conflitto, sono poi subentrate quelle revisioniste di chi riteneva che vi fosse già l’ombra della incipiente Guerra Fredda e che Washington agì per prevenire un intervento sovietico che avrebbe potuto estendere l’influenza dell’Urss in Estremo Oriente. Fino a quelle, più recenti e variamente declinate, che tendono a leggere Hiroshima come il picco estremo di una violenza che, nelle ultime fasi della guerra, fu dispiegata senza freni e inibizioni: a collegare l’Hiroshima dell’agosto 1945 alla Tokyo del marzo precedente, quando più di 100mila persone – per la maggior parte donne, anziani e bambini – morirono in una sola notte per mano delle bombe incendiarie sganciate dagli aerei americani. O ai tanti devastanti bombardamenti di città tedesche e giapponesi per i quali – avrebbe dichiarato anni più tardi l’ex Segretario della Difesa di Kennedy, Robert McNamara, che durante la guerra partecipò alla pianificazione di queste azioni – i responsabili sarebbero stati condannati per “crimini di guerra” se gli Usa non avessero prevalso nel conflitto.

Il monopolio nucleare degli Stati Uniti non durò a lungo e già nell’estate del 1949 l’Urss testò il suo primo ordigno atomico, in anticipo sulle previsioni anche grazie alla rete di spie reclutate da Mosca nel Regno Unito, negli Usa e in Canada. Iniziò allora una corsa agli armamenti destinata a costituire una delle manifestazioni della competizione della Guerra Fredda e una delle espressioni surrogate di un conflitto tra grandi potenze che, proprio per le sue potenziali conseguenze, non poteva più essere. L’era contemporanea delle relazioni internazionali fu anche, e talora primariamente, l’era atomica. Fino alla metà degli anni Sessanta, gli Usa preservarono una capacità di primo colpo: laddove avessero lanciato un attacco nucleare preventivo contro l’Urss ne avrebbero sostanzialmente azzerato la capacità di rappresaglia. E cercarono di elaborare una riflessione strategica che razionalizzasse l’inconcepibile, che pensasse l’impensabile: che definisse come usare tale arma terribile; per capire, come scrisse un giovane Henry Kissinger in un libro (“Nuclear Weapons and Foreign Policy”) che lo rese celebre nel 1957, se questo “spettacolare” strumento “ponesse solo dei rischi” e non “offrisse invece delle opportunità”. Frequenti furono quindi i viaggi di esperti e studiosi nel nido del cuculo di un possibile conflitto nucleare. Nel mentre, però, la consapevolezza del pericolo estremo cominciava a farsi pubblica così come pubblica diventava quella degli effetti della contaminazione radioattiva causata dai test nucleari e delle conseguenze di lungo periodo dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Prima nel Regno Unito e negli Usa, poi in tanta parte nel mondo e nello stesso Giappone, nacque un influente movimento antinuclearista, destinato a diventare un importante attore politico almeno sino alla fine della Guerra Fredda. Quando poi l’Urss, grazie allo sviluppo della sua tecnologia missilistica, maturò finalmente la capacità di rispondere a un attacco statunitense – quando si dotò di un credibile deterrente nucleare – allora tutti i paradossi e le contraddizioni dell’era atomica vennero a galla. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, nella famosa (e spesso fraintesa) massima di Carl von Clausewitz – se essa è cioè strumento al servizio della politica e di un suo disegno – allora le armi atomiche sono mezzi post-clausewitziani: tale è la loro capacità distruttiva che sfuggono alla gestione ultima di quell’attore, la politica appunto, sotto il cui controllo dovrebbero invece soggiacere. Sono strumenti la cui funzione è il non-uso: da costruirsi, dispiegarsi e aggiornarsi per non essere utilizzati.

Dagli anni Sessanta fino ai tempi recenti, due dinamiche hanno contraddistinto l’era atomica e i suoi paradossi: la deterrenza generalizzata, basata sulla certezza di una distruzione assicurata di tutti i partecipanti a una guerra nucleare; la non-proliferazione, definita in una serie di accordi fondamentali a partire dai trattati del 1963 e del 1968. La prima è stata a lungo consentita da una delle più straordinarie contraddizioni della nostra contemporaneità: la rinuncia, codificata nel trattato ABM firmato da Usa e Urss nel 1972, alla capacità di difendersi da un attacco nucleare per rendere certa la mutua distruzione in caso di guerra. Le superpotenze nucleari accettarono e formalizzarono la propria vulnerabilità perché grazie ad essa si poteva prevenire un conflitto altamente distruttivo per entrambe. La non-proliferazione, a sua volta, avrebbe di molto ridotto il numero di paesi che aspiravano a dotarsi di armi nucleari, anche se sarebbe stata spesso sfidata: da Israele (in segreto), dall’India (nel 1974), dal Pakistan (nel 1998) e in tempi più recenti dalla Corea del Nord.

La riflessione teorica non sarebbe a sua volta terminata. Studiosi eminenti, si pensi solo allo scienziato politico Kenneth Waltz, magnificarono l’impatto stabilizzatore e pacificatore delle armi nucleari, sostenendone quindi la piena diffusione (l’ultimo articolo di Waltz, nel 2012, s’intitolava emblematicamente “Perché l’Iran dovrebbe avere la bomba”). Altri sottolinearono, e talora celebrarono, la diffusione di un “tabù nucleare” che implicitamente avrebbe emancipato l’umanità dal rischio di un conflitto catastrofico. Altri ancora, tra cui lo stesso Kissinger, sostennero infine la necessità di un’abolizione totale – una “opzione zero” – che solo avrebbe impedito un rischio altrimenti sempre presente.

Fino a quando, il tabù nucleare – almeno a livello retorico – è cominciato a venir meno, la struttura della non-proliferazione ha mostrato crepe sempre più profonde, la logica della deterrenza reciproca è stata vieppiù sfidata (oggi da quel sistema di difesa antimissilistica, il “golden dome”, che Trump ambisce a dispiegare) e il negoziato permanente tra le due grandi potenze nucleari – Stati Uniti e Russia – è imploso, per colpe e scelte di entrambi. Con molteplici fronti di guerra aperti e un ordine internazionale sempre più volatile e frammentato, anche la fondamentale memoria di Hiroshima appare ora più flebile e distante. E con essa si sono fatti più deboli anche una lezione e un monito che in teoria dovrebbero essere imperituri.

Il Giornale di Brescia, 6 agosto 2025

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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