Le corti e i dazi di Trump

La corte d’appello federale conferma quanto deciso il maggio scorso dal tribunale per il commercio internazionale di New York, dichiarando così illegali la gran parte dei dazi imposti da Trump. La decisione viene però sospesa, e i dazi restano in vigore, fino alla metà di ottobre per permettere il ricorso dell’amministrazione alla Corte Suprema, a cui passa ora la palla e che sarà chiamata a esprimersi in uno dei casi più delicati e importanti di questo secondo mandato presidenziale di Donald Trump.

I due pronunciamenti delle Corti si fondano su un duplice assunto: che la regolamentazione del commercio sia competenza del Congresso (art.1, sezione 8: “il Congresso … avrà il potere di regolare il commercio coi paesi stranieri, tra gli Stati e con le tribù indiane”); e che la legislazione straordinaria invocata da Trump, sulla base di una legge del 1977 che garantisce al Presidente ampi poteri in risposta a un’emergenza nazionale, non possa giustificare l’imposizione di dazi onnicomprensivi quale quella promossa in questi mesi. Per i due tribunali quello di Trump è stato un abuso di potere; uno dei tanti cui abbiamo assistito dal suo insediamento del 20 gennaio scorso. Fondato sulla denuncia di un presunto stato d’emergenza – in questo caso il pesante disavanzo commerciale del paese – che giustificherebbe l’aggiramento delle costrizioni costituzionali, l’alterazione degli equilibri tra i diversi poteri a favore dell’Esecutivo, e l’azione unilaterale (e rapida) di quest’ultimo.

Si apre ora una partita straordinariamente delicata. Nella quale si manifesterà una volta ancora l’inestricabile intreccio tra le dinamiche politiche e costituzionali statunitensi e quelle internazionali. La decisione della Corte Suprema non è scontata. Vi è, lo sappiamo, una chiara maggioranza conservatrice di sei giudici a tre, che in più occasioni si è pronunciata a favore dell’amministrazione. Tre di questi sei giudici conservatori – Brett Kavanaugh, Amy Coney Barret e il Presidente della Corte, John Roberts – hanno però posizioni meno rigide e di tanto in tanto votano in difformità rispetto a questi schieramenti politici. Laddove il pronunciamento risultasse favorevole all’amministrazione, annullando le due decisioni delle corti inferiori, Trump ne uscirà ovviamente rafforzato, ma poco di sostanziale cambierà rispetto alla situazione attuale. Se però la Corte riterrà anch’essa incostituzionale la politica dei dazi di Trump, allora i riverberi saranno ampi e in parte imprevedibili.

I dazi sono strumento privilegiato della politica commerciale e di quella estera del Presidente. Servono per ridurre i disavanzi commerciali, per fare cassa – compensando la riduzione del gettito conseguente alla nuova legge di bilancio – e, in teoria, per facilitare quella reindustrializzazione tanto promessa quanto lontana. Ma costituiscono anche leva di pressione, se non vero e proprio strumento di ricatto, per imporre le proprie posizioni agli altri Stati, siano esse la richiesta al Brasile d’interrompere la procedura giudiziaria in corso contro l’ex Presidente Bolsonaro o quella all’Europa di non tassare i giganti digitali statunitensi o regolamentarne le attività. E costituiscono, questi dazi, anche la sublimazione simbolica e ideologica del trumpismo: l’emblema di una sovranità ritrovata, che permetterebbe di agire unilateralmente, fuori dalle regole e dagli accordi internazionali, sfruttando lo straordinario asset rappresentato dal mercato statunitense e dalla sua importanza se non indispensabilità per tante economie. Nel loro dispiego si combinano l’unilateralismo interno (l’Esecutivo che agisce senza intermediazioni e contrappesi) e quello internazionale (gli Usa che impongono la propria linea agli altri). È un pilastro del trumpismo, quindi, quello che viene ora sfidato. E l’esito di questa sfida appare tanto incerto quanto cruciale.

Il Giornale di Brescia, 31 agosto 2025

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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