Gunboat diplomacy in Venezuela

Sono diciassette, per il momento, le vittime di tre attacchi condotti nelle ultime settimane dalle forze armate statunitensi contro imbarcazioni venezuelane nel Mare meridionale dei Caraibi. Narcotrafficanti legati alla gang criminale “Tren de Aragua” che – da ordine esecutivo del 15 marzo scorso – starebbe promovendo un piano d’invasione degli Stati Uniti, ha affermato Trump. E quindi legittima azione di autodifesa. Nelle nebbie ancor più fitte di quelle delle guerre convenzionali, i fatti restano opachi ovvero mancano le evidenze necessarie per essere certi che questa versione sia attendibile (e poco o nulla si sa sull’identità dei diciassette). Anzi, filtrano testimonianze e video secondo i quali la prima imbarcazione sarebbe stata colpita più volte, e affondata, quando stava rientrando verso il Venezuela, mentre la terza era diretta a Trinidad Tobago, da dove le merci – incluse quelle illecite – vengono spesso trasbordate verso l’Europa (tutti i dati di cui disponiamo indicano peraltro che è il confine meridionale tra Stati Uniti e Messico quello dove transita la quasi totalità degli stupefacenti che arrivano negli Usa, a partire dal letale Fentanyl).

Contestualmente a queste azioni, è di molto cresciuta la presenza di navi della marina statunitense nelle acque prospicenti alle coste venezuelane e nell’intero Mare dei Caraibi. E dal “Dipartimento della Guerra”, come è stato ribattezzato il vecchio Dipartimento della Difesa, filtrano ora voci secondo le quali gli Usa sarebbero prossimi a lanciare degli attacchi mirati dentro lo stesso territorio venezuelano.

Come leggere tutto ciò? E cosa ci dice della politica estera di Trump e dello specifico teatro centro e sud-americano?

Come altri presidenti prima di lui, anche Donald Trump fa un uso ampio e discrezionale dei poteri concessi alla Casa Bianca dal Congresso dopo l’11 settembre 2001 per condurre la campagna globale contro il terrorismo. Come spesso con Trump, assistiamo però a un significativo salto qualitativo, in virtù del quale questi poteri sono ora invocati per giustificare l’eliminazione sommaria di chiunque si trovi su un’imbarcazione che si sospetti stia portando droga negli Stati Uniti. Civili, questi, senza nome o passato, eliminati in acque internazionali come se fossero combattenti nemici in un fronte riconosciuto di guerra.

Rimarcare l’ennesima violazione statunitense dei presupposti basilari del diritto internazionale e di guerra è esercizio inevitabile quanto pleonastico. Regole e istituzioni della governance globale sono ormai oggetto di quasi quotidiano sbeffeggio da parte di Washington, ed è probabile che anche questa dimensione simbolica – la volontà di usare la questione per l’ennesimo sfregio alla comunità internazionale, o a quel che resta di essa – abbia avuto un ruolo dietro la scelta di autorizzare queste azioni.

Due altre interpretazioni, strettamente complementari, debbono però essere aggiunte. La prima rimanda al contesto interno. Anche se vi è stato un calo significativo rispetto al picco del 2023 (da 110mila a meno 80mila negli ultimi dodici mesi conteggiati), il numero di morti per overdosi rimane straordinariamente elevato e quasi doppio rispetto a dieci anni fa. L’“epidemia” di oppiacei, come viene chiamata, è percepita e rappresentata come un’emergenza nazionale. Attribuirne cause e responsabilità ad agenti stranieri è strategia antica e sempre efficace. Che contribuisce a rendere popolari misure estreme come quelle cui stiamo assistendo, a maggior ragione se integrate entro una draconiana postura della “legge” e dell’“ordine” che piace a tanto elettorato, repubblicano e non.

La seconda interpretazione ci porta invece alla politica estera. L’approccio e la retorica di Trump sono stati fin dal primo giorno ostentatamente neo-imperiali. Dentro questi schemi, Trump e il suo Segretario di Stato, Marco Rubio, non hanno fatto mistero di voler rilanciare una politica di attiva ingerenza negli affari interni dei paesi americani, in un emisfero dove gli Usa sono chiamati a riaffermare, se necessario con la forza, la propria egemonia e il proprio dominio. Il Venezuela, e in subordine Cuba, paiono essere target ideali: per i loro regimi autoritari e antistatunitensi; e, anche, per la loro evidente fragilità e vulnerabilità. Da sfruttare senza prestare troppa attenzione ai dettagli di un diritto internazionale che per questo Presidente al meglio non esiste o al peggio è un feticcio del passato da irridere e umiliare.

Il Giornale di Brescia, 29 settembre 2025

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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