Un altro “shutdown”: un’altra “chiusura”, cioè, di tutte le attività non essenziali del governo federale, e il congedo temporaneo di quasi un milione di lavoratori, a causa dell’incapacità del Congresso di approvare l’estensione del finanziamento di tali attività. Uno strumento, quello dello shutdown, utilizzato spesso – ma per periodi molto brevi, di pochi giorni – a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, rilanciato dai repubblicani contro Clinton (la lunghissima sospensione del 1995) e Obama (nel 2013) e poi ritornato con Trump. Questi ultimi shutdowns si connotano appunto per la loro lunghezza, il conseguente, ben maggiore impatto sui lavoratori coinvolti e sui fruitori dei servizi sospesi e, non di rado, la provvisorietà dei compromessi raggiunti per porvi termine.
Che cosa ci dice questo nuovo shutdown? Quali sono le implicazioni politiche e i rischi per entrambe le parti?
La prima considerazione da fare è che natura e lunghezza dei shutdowns più recenti esprimono in modo quasi plastico i danni prodotti dalla polarizzazione sulla governabilità. Un contesto polarizzato, di demonizzazione e delegittimazione della controparte, tende a radicalizzare lessico e azione politica di chi governa. In una spirale viziosa ciò radicalizza a sua volta l’opposizione, la resistenza a tale politica e la conseguente disponibilità a usare tutti gli strumenti disponibili per impedirne l’attuazione. Lo shutdown diviene la forma estrema di un ostruzionismo che entrambe le parti, quando si trovano all’opposizione, dispiegano senza remore, soprattutto al Senato dove, con l’eccezione del bilancio, è necessario avere 60 voti su 100 per porre termine alla discussione e mettere una legge al voto.
Il processo che ha portato a questo ultimo shutdown rappresenta quasi un caso di scuola. La maggioranza repubblicana al Congresso produce una legge di bilancio – il famoso ‘Big Beautiful Big’ (letteralmente “la grande e splendida legge”) tra le più estreme dell’era moderna (anche più di quelle del primo mandato reaganiano). Diversamente dalle leggi di un passato nemmeno così lontano, non vi è nessuna mediazione bipartisan nell’iter legislativo e il voto finale, di strettissima misura, avviene secondo logiche rigidamente partitiche (218 a 214 alla Camera; 51 a 50, con il voto decisivo del vicepresidente Vance, al Senato). Si tratta di una legge fiscalmente regressiva secondo tutte le analisi, incluse quelle dell’agenzia indipendente, il Congressional Budget Office (CBO), cui si affida il Congresso. E di una legge che, con vari strumenti, colpisce pesantemente la sanità pubblica, soprattutto il popolarissimo programma Medicaid, amministrato a livello statale e destinato a individui e famiglie a basso reddito, che si è largamente espanso grazie alla riforma del 2010 di Obama. I democratici chiedono di modificare questi tagli e prorogare vari crediti fiscali per chi invece la copertura sanitaria la acquista dalle assicurazioni private. Lo fanno nel convincimento che la loro sia, appunto, una campagna vincente, vista la grande popolarità di Medicaid – grazie al quale sopravvivono piccoli ospedali e cliniche in tante aree rurali poco popolate, dove la gran parte dei voti vanno ai repubblicani – e della riforma di Obama (oggi apprezzata, secondo i sondaggi, da quasi il 70% degli americani). Sono però loro a provocare lo shutdown e a poter quindi essere accusati di avere la responsabilità dell’interruzione di tanti servizi pubblici. In passato, è capitato spesso al partito che sceglieva la via dell’ostruzionismo di perdere la battaglia dell’opinione pubblica e di pagare pesanti conseguenze al successivo ciclo elettorale. Senza contare che proprio l’amministrazione potrebbe usare questo periodo per accelerare il suo piano di drastica riduzione di tante agenzie federali e il licenziamento di decine di migliaia di loro dipendenti. Se è difficile prevedere chi prevarrà, di certo perdono la politica e le sue istituzioni, sempre più deboli e delegittimate, a partire da un Congresso nel quale oggi meno del 10% degli americani dichiara di avere ancora una qualche fiducia.
Il Giornale di Brescia, 2 ottobre 2025
