Chi è Henry Kissinger?

Henry Kissinger ha compiuto ieri 100 anni. E come è inevitabile, i media, nazionali e internazionali hanno dedicato grande attenzione a questo compleanno. Nonostante la sua esperienza al governo negli Usa sia durata relativamente poco (8 anni – nelle amministrazioni Nixon e Ford – come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato) e sia terminata nel 1977, Kissinger rimane figura quasi mitologica. Per molti è ancor oggi un genio della politica internazionale: un Machiavelli in grado di vedere il futuro, ha scritto solo pochi giorni fa Matteo Renzi sul suo Riformista. Per altri – si pensi solo alle durissime denunce del famoso giornalista britannico Christopher Hitchens – un uomo che ha deliberatamente causato morti e torture e che per questo doveva essere processato come criminale di guerra.

Ma chi è Henry Kissinger? E perché è ancor oggi figura popolare, amata o odiata, ma comunque sempre sotto i riflettori? Mille paradossi scandiscono la sua vita e in una certa misura ci aiutano a dare una risposta. Ebreo tedesco scappato con la famiglia dalla Germania nel 1938 all’età di quindici anni, come milioni di americani Kissinger vide la sua vita stravolta dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Guerra Fredda. Che lo americanizzarono pienamente, grazie alla sua esperienza nell’esercito tra il 1942 e il 1945. E che gli offrirono possibilità fino ad allora quasi inimmaginabili per un immigrato ebreo di umili origini e appena giunto negli Usa. Grazie ai massicci programmi destinati ai veterani di guerra, Kissinger – che come tanti giovani ebrei newyorchesi prima di essere arruolato aveva studiato per diventare contabile all’università pubblica della città (CUNY) – poté accedere alla prestigiosissima Harvard. Fu quella la sua porta d’ingresso nell’America che conta. Studiò storia, filosofia e scienza politica. Divenne esperto di armi nucleari, relazioni transatlantiche e questioni strategiche. Subì pesanti umiliazioni che ne alimentarono spesso il rancore verso quelle élite che lo avevano in ultimo accolto ma mai pienamente riconosciuto come uno dei loro. Harvard non gli diede la cattedra tanto ambita; non ottenne un posto di rilievo nell’amministrazione Kennedy – popolata di quelli che il grande giornalista David Halberstam avrebbe chiamato “i migliori e i più brillanti,” incluso il suo ex Preside a Harvard, McGeorge Bundy. Divenne fidato (e ben remunerato) consigliere di un rampollo della famiglia Rockefeller, Nelson Jr., che vanamente cercava di arrivare alla Casa Bianca. Ed ebbe finalmente la sua chance quando Richard Nixon fu eletto nel 1968. Furono gli anni di Nixon (1969-74) quelli in cui Kissinger finì finalmente sotto i riflettori. Riflettori che amava moltissimo e che cercava incessantemente; a cui offriva il suo marcato accento tedesco, la sua sprezzante ironia, il suo ostentato cinismo. E a cui diceva che l’America doveva finalmente farsi adulta, mettendo in asse la sua impareggiabile potenza con una maturità e una consapevolezza che ancora le mancavano. Maturità e consapevolezza dei propri interessi, sì, ma anche dei propri limiti. Per gli Usa, disse ad esempio nel 1976, era giunto finalmente il tempo di “imparare a condurre la politica estera come le altre nazioni hanno dovuto fare per tanti secoli, senza fughe e senza tregua”. A un’America divisa e lacerata, umiliata in Vietnam e senza bussole precise a cui affidarsi, questo messaggio inizialmente piacque. E Kissinger, l’europeo prestato agli Usa per insegnar loro le dure e imperiture leggi della politica internazionale, divenne una sorta di super star.

Peccato che nei vent’anni precedenti avesse detto e scritto tutto e il suo contrario; avesse cavalcato e incarnato quelle mode intellettuali e quei precetti politici che ora denunciava. Perché tutto si può dire di Henry Kissinger meno che sia stato un intellettuale pubblico coerente e anticonvenzionale, come sa bene chiunque abbia un minimo di familiarità con i suoi scritti. È però riuscito a proiettare un’immagine di sobria e pensosa competenza che ha catturato, e continua a catturare, la fantasia di molti. E soprattutto nei momenti di difficoltà dell’azione internazionale di Washington, come è per tanti aspetti quello degli ultimi due decenni, il suo presunto realismo è tornato ad ammaliare i tanti ammiratori e a consolidare un mito che poggia in realtà su basi assai fragili. 

Il Giornale di Brescia, 28 maggio 2023

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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