Il G-7 di Hiroshima

Si è chiuso anche questo G-7 di Hiroshima. Ricco di simbologia, come si confà a questi summit, più che di impegni concreti. E però l’importanza della simbologia nelle relazioni internazionali non può essere sottostimata, anche perché è essa che viene utilizzata dai leader nazionali per rappresentare interessi, pratiche e obiettivi della propria politica estera e per costruire l’indispensabile consenso pubblico alla propria azione.

Che cosa è stato quindi detto in questo G-7? Quali sono stati i suoi aspetti simbolicamente più rilevanti? E cosa ci rivela sulla forza, i limiti e le contraddizioni del G-7 oggi?

Tre sembrano essere stati gli elementi centrali del vertice: il conflitto in Ucraina e il rischio di un’escalation che ne internazionalizzi ancor più natura e rischi; la Cina e la minaccia che si ritiene essa ponga ai paesi partecipanti al summit; l’interdipendenza, capitalistica e democratica, tra questi.

Sull’Ucraina i sette hanno ribadito il loro pieno appoggio a Kiev e l’impegno a coordinare le politiche di massicci aiuti che lo hanno finora contraddistinto. Su questo non vi sono stati i tentennamenti che hanno invece contraddistinto molte discussioni bilaterali o transatlantiche. E la simbologia è stata qui particolarmente visibile e cercata, a partire dalla scelta del luogo del summit. Hiroshima rappresenta ovviamente l’orrore di una guerra nucleare rispetto alla quale pareva essere stato interiorizzato negli anni un inattaccabile tabù che il conflitto ucraino, almeno a livello retorico, ha oggi scardinato. Ecco quindi i riferimenti, nel lunghissimo comunicato finale, alla volontà di rilanciare i negoziati per la riduzione degli armamenti con l’obiettivo ultimo di arrivare a un “mondo senza armi nucleari”.  Una dichiarazione di principio forte (e difficilmente contestabile) accompagnata da riferimenti espliciti ai test nucleari nord-coreani e al programma iraniano e, impliciti, alle reiterate minacce russe.

Rispetto alla Cina, il G-7 ha confermato la linea della fermezza sollecitata con forza da Stati Uniti e Giappone. Ma lo ha fatto con l’ambivalenza che da alcuni mesi sembra contraddistinguere la posizione verso Pechino. In numerosi passaggi del comunicato finale si è fatto riferimento alla necessità di preservare relazioni “stabili” e “costruttive” con il gigante cinese, la cui crescita e sviluppo sarebbe nell’interesse di tutti. Salvo poi denunciare la minaccia portata all’ordine globale sia dalle politiche economiche cinesi sia dalle sue velleità revisionistiche nell’Asia Pacifico.

Infine, sono stati riaffermati i tanti elementi d’ineludibile interdipendenza che legano i sette. Interdipendenza delle possibilità, su tutte quelle commerciali; e interdipendenza dei pericoli, generati da rovinose dinamiche d’integrazione globale come quelle prodotte dal cambiamento climatico.

La globalizzazione ha insomma alimentato opportunità e minacce: ha sollevato decine di milioni di persone dalla povertà, contribuito a surriscaldare ancor più il pianeta, acuito le diseguaglianze e indebolito le democrazie nelle società più ricche e sviluppate. Ed è proprio rispetto ai processi d’integrazione globale e come essi hanno alterato l’ordine mondiale che questo G-7 rivela una volta ancora tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Nella forma del G-5/6, questi vertici nacquero a metà anni Settanta come strumento sia per fronteggiare la crisi apparente del capitalismo sia per confrontarsi con la fine dei meccanismi che per trent’anni lo avevano imbrigliato e regolamentato. Divenne, il G-7, in ultimo mezzo di gestione e promozione della globalizzazione da parte di paesi che aspiravano a definirne le regole e ad approfittarne degli esiti. Oggi questo non sembra avvenire più. Senza eccedere in letture decliniste che talora esagerano la ridotta influenza dei paesi del G-7, è chiaro che mezzo secolo di globalizzazione ha modificato radicalmente i rapporti di forza del sistema internazionale: per usare un indicatore facile, la percentuale del PIL mondiale prodotta dai Sette si è quasi dimezzata tra gli anni Settanta e oggi, passando da più del 50% a meno del 30. E al di là della retorica utilizzata – ad esempio nella sottolineatura, di fatto molto cosmetica, che con la Cina e la sua economia non si punti tanto al disaccoppiamento (decoupling) quanto alla “riduzione del rischio” (de-risking) – è un G-7 che sembra puntare oggi più a de-globalizzare, magari approfondendo l’integrazione tra i suoi membri, che a immaginare regole e pratiche nuove per una globalizzazione sempre più contestata e impopolare.

Il Giornale di Brescia, 22 maggio 2023

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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