Sul voto in Iowa

Qualche rapida riflessione sul voto in Iowa:

  • A Trump non poteva andare meglio. Vince, largo, ottenendo più del 50% dei voti (e dei delegati), più o meno in linea con i sondaggi. Soprattutto, Haley non riesce a buttare fuori dalla contesa DeSantis, che rimarrà in corsa ancora un po’, contribuendo alla dispersione di un voto che i repubblicani anti-Trump speravano invece di poter convogliare su un singolo candidato.
  • La partecipazione elettorale appare decisamente inferiore a quella del 2016 (o a quella dei democratici nel 2020). Da capire se sia solo conseguenza del freddo terribile o spia di qualcosa di più rilevante. Si conferma e rafforza invece un dato visto già otto anni fa: la sostanziale “nazionalizzazione” del voto locale e l’impatto che ciò ha sulle forme della campagna elettorale. Diversamente dal 2016, Trump ha costruito una solida infrastruttura in Iowa, ma si è presentato pochissime volte a fare campagna, mentre DeSantis e gli altri cercavano di battere palmo a palmo tutte le 99 contee dello Stato.
  • Le ragioni che spiegano l’avversione di tanti elettori a Biden e la loro disponibilità a votare anche Trump le conosciamo e le abbiamo discusse in lungo e in largo. Ma perché la base repubblicana preferisce, e così largamente ,Trump ad avversari come Haley e DeSantis, molto più preparati e articolati? E non puniscono in alcun modo, ma anzi premiano, la sua scelta di non partecipare ai dibattiti elettorali e di non confrontarsi con gli altri candidati. Le ragioni sono plurime e rimandano anche ai contenuti della proposta politica (il modello di conservatorismo tradizionale di Haley – su economia, conti pubblici, politica estera e di sicurezza – è da tempo contestato da una maggioranza di elettori a destra; le guerre culturali e la lotta al wokismo di DeSantis non hanno occupato quello spazio centrale nel confronto politico che molti immaginavano). È chiaro, però, che il partito repubblicano è da tempo diventato il partito di Donald Trump. Che dal 2016 a oggi il suo lessico binario e volgare, le sue tante incoerenze, comportamenti un tempo inaccettabili (come, appunto, il rifiutarsi di partecipare ai confronti televisivi) sono stati progressivamente normalizzati: il riflesso, questo, di un degrado e di un imbarbarimento del confronto politico e del discorso pubblico di cui Trump è tanto espressione plastica quanto, da alcuni anni, causa primaria.
  • Un degrado e un imbarbarimento visibili nel linguaggio dispiegato da Trump in questa campagna – gli immigrati che “avvelenano il sangue” dell’America, gli avversari politici “che vivono come parassiti dentro i confini” degli Stati Uniti e che vanno pertanto “estirpati”, e tanto altro – ma anche nell’incapacità di eradicare verità alternative cospirazioniste che Trump cavalca oggi come cavalcò nel 2016. Allora una maggioranza dei suoi elettori continuava a credere che Obama non fosse nato negli Usa e (e fosse quindi un Presidente illegittimo); oggi crede alla grande bugia del voto truccato o al teoria – riproposta da Trump anche in alcuni recenti comizi – che il 6 gennaio sia stato provocato dall’FBI e dal Deep State.
  • Per tornare ai contenuti della politica, è chiaro che l’immigrazione – legato a quello della criminalità e della crisi di alcuni centri urbani – sia un tema vincente per i repubblicani e Trump. Così come continua a esserlo l’economia, a dispetto dei buoni (e talora ottimi ) fondamentali. Su questo, continuo a credere si debba utilizzare una prospettiva di periodo più lungo del semplice confronto tra Biden, Trump e lo stesso Obama (i dati su riduzione diseguaglianza e crescita redditi medi degli ultimi due sono peraltro molto simili) e guardare allo spartiacque cruciale del 2008, quanto implose un certo modello di consumi a debito fondato sulla stretta interdipendenza tra bolla dell’immobiliare e capacità di consumo individuale e familiare. Da allora in poi, il messaggio repubblicano è stato quello di una nostalgia articolata in vari modi, ma sempre centrato sull’idea che si stia assistendo al declino, se non alla fine, di un’America rappresentata come idilliaca, prospera e a-conflittuale (ovvero di un’America in cui l’ordine è garantito da inscalfibili gerarchie sociali e razziali e da politiche di tolleranza zero nel mantenimento di questo ordine). È, questa, la premessa dell’essenzialismo normativo di Trump che tanto piace a un pezzo di elettorato: la celebrazione di quell’ordine e la promessa di poterlo ripristinare.
  • Una ragione per i democratici per accogliere positivamente questo risultato: Trump è per molti aspetti l’avversario ideale, che galvanizza la propria base e aliena un segmento, piccolo ma potenzialmente decisivo, di elettori indipendenti e finanche conservatori …
  • …. una invece per essere profondamente preoccupati (come chiunque, negli Usa e nel mondo): il consenso di cui gode un personaggio che ha promosso un disegno eversivo dopo il voto del 2020, che offre una retorica grossolana e violenta, che ostenta ormai apertamente le sue inclinazioni autoritarie non può che inquietare, a prescindere dalle simpatie e dagli orientamenti politici.
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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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