Il Discorso di Biden

Sono state parole forti, ruvide e anche non poco ciniche quelle con cui Joe Biden si è rivolto agli americani, e solo in subordine all’opinione pubblica internazionale, per spiegare la decisione di ritirarsi definitivamente dall’Afghanistan e per rispondere alle critiche per la pessima gestione della crisi in corso. E sono state parole probabilmente efficaci rispetto agli imperativi politici e, tra non molto, elettorali del Presidente. Biden ha virilmente rivendicato la responsabilità ultima della decisione; ha citato Truman, usando la celebre espressione “the buck stops with me” (più o meno letteralmente “il dollaro si ferma da me”), per ribadire che sua è la scelta di chiudere qui e ora l’intervento e sarà lui a pagarne eventualmente le conseguenze. Ma ha poi abilmente scaricato le colpe su terzi: i suoi predecessori e i loro progetti tanto ambiziosi quanto velleitari; Trump che gli ha legato le mani con l’accordo con i talebani del febbraio 2020; soprattutto l’inetta e incompetente leadership civile e militare afghana. Ha persino preso le distanze da Obama, rivendicando il suo precoce scetticismo nei confronti dell’impegno in Afghanistan, lui che – come quasi tutti nel post 11 settembre 2001 – aveva appoggiato l’intervento (e, qualche mese più tardi, da Senatore votato anche a favore di quello in Iraq), ma che da vice-Presidente si oppose a una nuova escalation, con l’invio di migliaia di soldati.

Biden ha esplicitato con brutalità quello che è noto e risaputo da tempo: grazie all’intervento in Afghanistan gli Usa hanno smantellato la rete di al-Qaeda e ottenuto la testa di Bin Laden; hanno però fallito nel loro ambizioso progetto di trasformare, modernizzare e democratizzare il paese (con una esplicita mistificazione, il Presidente ha provato addirittura a negare che quello fosse uno degli obiettivi della missione); e non sono stati in grado di contenere la lenta ma inarrestabile rinascita di un movimento talebano a sua volta più composito, diviso e articolato di quanto spesso non appaia. “Dopo 20 anni”, ha affermato il Presidente, “ho imparato la dura lezione che il momento buono per ritirare le forze statunitensi non c’era mai”.

Perché quel momento è ora giunto? Perché non vi è stato nessun passo indietro, neanche di fronte al precipitare della situazione in questi giorni?

Il discorso di Biden, è ovvio, serviva per cercare di controllare il danno causato dalla caduta – preventivata, ma ben più rapida e caotica delle previsioni – di Kabul e della città in teoria protette dalle forze speciali afghane. Sotto il fuoco delle critiche, il Presidente era obbligato a rispondere e cercare di rovesciare quella narrazione che lo rappresenta come leader debole e impreparato. Nel farlo, però, Biden ha avuto l’occasione per spiegare con più nettezza le ragioni della scelta del ritiro e, indirettamente, il modello di politica estera che intende promuovere ovvero il modo in cui essa sarà presentata agli americani e al resto del mondo. Non un isolazionismo del tutto impraticabile in un mondo in cui – dalla capacità di proiezione militare all’egemonia del dollaro all’impareggiabile influenza culturale – gli Usa rimangono non solo superiori, ma anche al centro del reticolo di rapporti e interdipendenze che scandiscono le relazioni internazionali oggi. Ma un’azione coerente col nazionalismo progressista che pare definire il modello di politica interna di Biden e le sue riforme. Dove si ripongono nel cassetto le crociate globali – per la democrazia, i diritti umani, l’integrazione economica – spesso promosse dagli Usa negli ultimi decenni. Dove la bussola, che orienta scelte e comportamenti, è un interesse nazionale declinato in forma tanto netta quanto circoscritta. E dove uno dei parametri fondamentali diventa quindi la volontà di non sprecare più inutilmente un sol dollaro o una sola vita statunitense come è invece avvenuto troppo spesso nel XXI secolo, in Afghanistan e altrove.

Il Giornale di Brescia, 18 agosto 2021

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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