“OUR CHILDREN WILL SING GREAT SONGS ABOUT US YEARS FROM NOW.” QUALCHE NOTA SULLA “PIÙ LUNGA GUERRA AMERICANA DI SEMPRE”

Un paio di cose sull’Afghanistan. O, meglio, sugli Usa e l’Afghanistan, che lascio volentieri a chi ne sa molto più di me i commenti su come l’esercito e il governo siano crollati come un castello di carte, su questi nuovi talebani, sulle loro tante fazioni e sulla loro capacità ultima di garantire una qualche stabilità – brutale e oscurantista, ma comunque disciplinatrice – al paese, che poi è quanto gli stessi Usa (sia con Trump sia con Biden) auspica(va)no e che spiega in parte gli accordi d’inizio 2020.

– L’intervento del 2001 aveva matrici e obiettivi diversi. Conseguiva, è ovvio, agli attentati dell’11 settembre e al bisogno, anche banalmente politico, per Bush di darvi un’immediata risposta. Colpire l’Afghanistan e abbattere il regime talebano serviva per smantellare la rete e le infrastrutture di Al Qaeda e rovesciare chi aveva permesso che operassero sul suo territorio. E serviva per dare un messaggio ai fragili governi di altri “failed/rogue states”, per usare lo slang tanto in voga all’epoca: che avrebbero dovuto provvedere a garantire ordine e disciplina sul loro territorio, pena un intervento esterno/statunitense. Vi era, infine, l’elemento “umanitario”, che l’Afghanistan doveva essere un’altra tappa dell’era dei diritti umani e della disponibilità della comunità internazionale, e del suo leader indiscusso, gli Usa, a usare se necessario la forza per garantirli/imporli/ripristinarli (furono, lo si ricorderà, soprattutto Blair, alcuni neoconservatori e non pochi falchi liberal – si rivedano ad esempio i pezzi di Chait & co su “The New Republic”, le posizioni di Ignatieff e anche quelle, più sofisticate sì ma comunque ambigue di Walzer (https://www.nytimes.com/…/what-a-little-war-in-iraq…) – ad articolarlo questo discorso e a legare anche esplicitamente l’Afghanistan al Kossovo e alla Bosnia; pur nei suoi problematici doppi standard e nelle sue tante opacità morali, sarebbe peraltro troppo facile rubricare tutto ciò a mera retorica).

– Questa ultima dimensione s’intrecciava infine strettamente con quella della modernizzazione e del “nation-building”. Si andava in Afghanistan con le armi, sì, ma anche per costruire, sviluppare e, appunto, modernizzare (che le armi siano poste al servizio di obiettivi altri da quelli strettamente militari è – banalizzo molto – una delle contraddizioni fondamentali di tanta politica/ideologia della modernizzazione statunitense, sulla quale abbiamo una letteratura infinita a partire dai lavori di Latham (https://www.cornellpress.cornell.edu/…/the-right-kind…/) , e Ekbladh (https://press.princeton.edu/…/the-great-american-mission) e tanti altri)

– La hybris era evidente (vedere la citazione di un influente neocon dell’epoca come Michael Ledeen qui in calce) così come gli assunti universalisti che vi sottostavano. Realistico o meno fosse quel progetto – e tanti esempi storici ci dicono che non lo era – avrebbe richiesto non solo gli investimenti massici che ci sono stati (qui le stime impressionanti del Watson Institute della Brown: https://watson.brown.edu/…/human-and-budgetary-costs…), ma una ben altra presenza militare, oltre alla disponibilità a mantenerla sine die e, di conseguenza, ad accettare un numero ben più alto di vittime statunitensi

– Le vittime, appunto. Qualcuno ha giustamente ricordato che di missione “internazionale” – e non solo statunitense od occidentale – si è trattato. Con le risoluzioni dell’Onu (che dopo l’ambigua 1441, mancarono sull’Iraq), la coalizione internazionale, l’assunzione di responsabilità da parte della Nato. E però le vittime di questa coalizione sono state per i 2/3 statunitensi (l’80/85% se includiamo anche i contractors). E di certo negli Usa l’intervento è stato percepito, rappresentato e raccontato come una “guerra americana”: “America’s Longest War” da un certo momento in poi (che poi era il titolo del classico di Herring sul Vietnam – https://www.mheducation.com/…/ameri…/M9781259922503.html ). Può una guerra durare venti anni? Può il decisore continuare a sostenerne la necessità di fronte a un’opinione pubblica che riesce al contempo a essere sempre più critica e meno interessata? I sondaggi ci dicono che una larga maggioranza di americani ha sostenuto la linea Trump/Biden del ritiro (https://www.thechicagocouncil.org/…/us-public-supports…); appoggiato all’inizio dall’85/90%, l’intervento in Afghanistan è divenuto vieppiù impopolare e nel secondo mandato di Obama una maggioranza (netta, anche se meno rispetto all’Iraq) lo considerava un errore (https://news.gallup.com/…/americans-split-whether… ).

– Anche perché da un lato venivano meno le condizioni che lo avevano determinato e dall’altro si spegnevano le illusioni che lo avevano giustificato. Gli Usa post-2008 non erano ovviamente quelli del 2001: paradossalmente erano più sicuri, che la paura del terrorismo era in parte rientrata, e più fragili, che l’illusione di onnipotenza unilaterale/unipolare – si rilegga l’emblematica, per molti aspetti incredibile NSS del 2002: https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/ – si stava affievolendo. Al di là di tanti piccoli successi (importantissimi per chi ne poté beneficiare, ci mancherebbe) in Afghanistan, il nation-building e la modernizzazione apparivano come delle chimere. E nel discorso pubblico, politico e mediatico statunitense l’enfasi, quando si parlava di Afghanistan, era posta invariabilmente sulla corruzione, il malgoverno, le furbizie pakistane, e la tenuta ultima dei talebani

– Così come andava mestamente chiudendosi la breve stagione dell’interventismo umanitario, nelle sue varie declinazioni e, appunto, nei suoi patenti doppi standard, e nelle sue mille contraddizioni. Qui si aprirebbe un capitolo lunghissimo su come abbia in una certa misura anch’essa concorso a fornire una grammatica alle dinamiche d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo (anche su questo vi è una letteratura ricchissima, ma un buon punto di partenza è lo scambio tra Hoffmann e Moyn sul “Past & Present” del 2018: https://academic.oup.com/…/article…/232/1/279/1752430 ; e la periodizzazione di Hoffmann, tutta centrata sugli anni Novanta, è per quanto mi riguarda molto convincente). Detta molto grossolanamente, dopo il 2008 morire o anche solo spendere dei dollari per Kabul è diventato politicamente impopolare se non insostenibile. E in fondo, l’argot realista di Obama e Trump – per quanto si voglia colto e niebuhriano il primo, e rozzo e primitivo il secondo – rifletteva questa svolta ovvero la necessità, per chi stava alla Casa Bianca, di accogliere le sollecitazioni di un’opinione pubblica insofferente se non ostile verso queste guerre e sempre più refrattaria a sostenere l’oneroso interventismo globale del post-Guerra Fredda.

– Il gioco dell’attribuzione delle responsabilità – Biden, Trump, Obama, Bush, Clinton, possiamo arrivare fino a Carter e Reagan e le covert operation promosse dal 79 all’89 – potrà gratificare le nostre simpatie o antipatie politiche, ma serve davvero a poco. Che quelle responsabilità sono ovviamente condivise; che – credo – si converga tutti nell’individuare nella decisione di intervenire in Iraq nel marzo 2003 un colossale errore; che anche senza l’Iraq (ma su questo invece vi è meno consenso), difficilmente in Afghanistan le cose sarebbero sul lungo periodo andate diversamente. Obama porta le sue di responsabilità, che in fondo fu lui a contrapporre – anche per convenienza elettorale – la guerra giusta e necessaria in Afghanistan a quella scelta ed evitabile in Iraq, salvo poi promuovere una mezza escalation con deadline, molto obamiana nel suo voler tenere assieme tutto, che servì a poco; credere che sia sua la responsabilità primaria vuol dire davvero essere accecati dal pregiudizio e, anche, dall’ignoranza.

– Detto ciò, quel che sta avvenendo avviene sotto la leadership di Biden; e suoi sono quindi questo fallimento e questa sconfitta (acuiti, ovviamente, dalla pessima comunicazione e dalla gestione di un’evacuazione per la quale si pensava di avere molto più tempo). La “più lunga guerra americana di sempre” si chiude con immagini che, quelle sì, rimandano ovviamente al Vietnam 75. Di umiliazione, per gli Usa e chi li guida, si tratta, questo è indiscutibile. Da più parti si utilizza però una categoria, quella di “credibilità” (e della credibilità perduta dagli Usa), che come gli storici ben sanno (https://press.uchicago.edu/…/book/chicago/M/bo3635962.html ) è tanto invocata quanto abusata e, anche, pericolosa (è stato il buon Kissinger, sia sul Vietnam sia sull’Iraq, a mostrarci bene quali cortocircuiti l’enfasi sulla “credibilità” possa provocare, affermando in entrambi i casi che, anche se si era trattato probabilmente di un errore intervenire, una voltà lì gli Usa non potevano più uscirne perché, appunto, avevano messo in gioco la loro credibilità….). Il problema non è la credibilità, ma – molto più concretamente – quel che avverrà o non avverrà in Afghanistan (così come quello che è avvenuto nel Vietnam comunista, oggi importante partner degli Stati Uniti). Se l’Afghanistan dovesse tornare a essere rifugio di gruppi terroristici che colpiscono gli Usa e l’Europa, allora Joe Biden sarà a tutti gli effetti colui che “ha perso l’Afghanistan” con le pesanti conseguenze politiche e, anche, elettorali del caso. Se l’Afghanistan dei talebani rimarrà un regime mostruoso, oscurantista e violento, attraversato da periodici conflitti interni, che però si limita al massimo a contribuire all’instabilità regionale, allora negli Usa si dimenticherà rapidamente quanto avvenuto.

– E si dimenticheranno anche i milioni di uomini e donne afghane costretti a viverci in quel regime. Perché è facile, e da studiosi indispensabile, sottolineare le contraddizioni, le opacità, le ipocrisie dei diritti umani post-anni 70, della loro declinazione parziale e selettiva, dei paradossi delle guerre umanitarie, dei doppi standard, ecc ecc ecc. Perché rileggere oggi la Albright o Samantha Power e il suo “Problem from Hell” fa un’impressione non dissimile dall’accendere un Commodore 64. E però, non so voi, ma il pensiero di come sarà la vita di una ragazzina afghana nei mesi e anni a venire a me mette un’angoscia e un magone difficili a descriversi

Qui, infine, la citazione di Ledeen del novembre 2001

““No stages. This is total war. We are fighting a variety of enemies. There are lots of them out there. All this talk about first we are going to do Afghanistan, then we will do Iraq… this is entirely the wrong way to go about it. If we just let our vision of the world go forth, and we embrace it entirely and we don’t try to piece together clever diplomacy, but just wage a total war… our children will sing great songs about us years from now.”

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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