Il dialogo tra Stati Uniti e Russia (e tra NATO e Mosca) non ha finora sortito alcun risultato. La situazione in Ucraina rimane tesa e infiammabile; il rischio di un’escalation e di un intervento militare russo è sempre vivo. L’impressione fortissima è che si sia entrati in una spirale dalla quale è difficilissimo uscire. L’atlantismo di Biden e la volontà del dipartimento di Stato di accelerare il processo d’integrazione dell’Ucraina dentro lo spazio securitario atlantico non hanno ovviamente aiutato. Ma a scatenare la crisi e portarla dentro l’attuale vicolo cieco è stato Putin, e questo è bene non dimenticarlo. Sul perché lo abbia fatto – sul perché si sia spinto fino a un punto di quasi non-ritorno – si possono dare risposte diverse ancorché non necessariamente esclusive. Il Cremlino ritiene chiaramente che il rischio di un’Ucraina sempre più legata all’Occidente, anticamera di una (ancora molto futuribile) adesione alla NATO, non sia più tollerabile e vada stoppato ora. Che sia possibile farlo perché l’opinione pubblica e la classe politica degli Stati Uniti sono oggi manifestamente anti-interventiste, come evidenziato anche dall’umiliante uscita dall’Afghanistan. E ch,e anzi, proprio la crisi ucraina offra a Mosca la possibilità di infliggere un’ulteriore umiliazione a Biden, evidenziando lo scarto tra la retorica da Guerra Fredda del Presidente statunitense e una realtà dei fatti nella quale manca agli Usa la possibilità di promuovere una robusta azione di contenimento della rinnovata aggressività russa. Agiscono infine dinamiche legate alla politica interna russa: la volontà di capitalizzare politicamente su un nazionalismo, e una nostalgia della potenza sovietica, che Putin ha vieppiù fatto propri; e il timore che un’Ucraina sempre più legata agli Usa produca una destabilizzazione della Russia stessa, facilitando la penetrazione di un’ideologica democratica, occidentale e dei diritti umani che già in passato gli Usa cercarono di sostenere e alimentare.
Agli Usa la Russia chiede un impegno – una esplicita dichiarazione che la NATO non si allargherà ancora a est, incorporando l’Ucraina – che non è politicamente accettabile.Non lo è per un amministrazione che nella centralità della comunità di democrazie “atlantiche” trova il comune denominatore ideologico e discorsivo della propria politica estera. Non lo è rispetto alle altre sfide con cui si confrontano gli Usa, a partire da quella – nodale – con una Cina che ovviamente osserva interessata quanto sta accadendo in Ucraina per misurare la capacità degli Usa di mettere in asse retorica e politica, promesse e azioni. E non lo è per gli alleati europei degli Usa, su tutti quelli che stanno sulla linea di questo fronte di conflitto – baltici e Polonia in particolare.
Stante i condizionamenti politici interni statunitensi, il monumentale squilibrio militare sul campo a vantaggio delle forze russe e i vincoli strutturali di un ordine nucleare che inibisce escalation militari tra le superpotenze, le armi di cui dispongono gli Usa e i loro alleati sono, almeno sul breve periodo, poche e spuntate: nuove, pesanti sanzioni economiche (nei confronti di un paese, la Russia, che però da un lato ha dimostrato di saperle assorbire e dall’altro è contraddistinto da un livello d’integrazione economica con gli Usa piuttosto limitato); e trasferimento di tecnologia militare a Kiev. Non abbastanza per bloccare Putin oggi. Molto per rendere ancora più debole una potenza, quella russa, in cui piedi d’argilla sono per molti aspetti visibili anche in questo suo ultimo, pericolosissimo azzardo.
Il Giornale di Brescia, 17 gennaio 2022