L’assalto al Congresso di un anno fa, e il tentativo di rovesciare con la violenza l’esito del voto del novembre precedente, costituisce oggi ferita viva e attiva. Momento estremo ma non terminale di una cancrena della democrazia statunitense per la quale non è ancora stata trovata una cura. Un paese e un mondo politico polarizzati; un sistema democratico sempre più disfunzionale e inefficace; un’economia che genera sacche non marginali di esclusione e precarietà; l’appeal di soluzioni autoritarie al cui servizio Donald Trump offrì posture torve e lessico primitivo. Il convergere di tutti questi elementi spiega la sofferenza della democrazia statunitense e la sfida esplicita che il 6 gennaio 2021 le fu posta. Ma spiega anche perché dopo quella giornata tragica e surreale non si sia riusciti a dare la necessaria risposta bipartisan a una minaccia che rischia davvero di travolgere le fragili dighe di istituzioni delegittimate, politici poco credibili e una polarizzazione che lacera e divide il paese. Al posto di una memoria condivisa – fondata sul comune riconoscimento del pericolo corso, del punto di non ritorno di quel drammatico e imbarazzante tentativo di golpe – sono andate sedimentandosi narrazioni antitetiche. Quella dei democratici, in larga misura corretta ma funzionale anche al loro ovvio obiettivo di dividere una controparte assai più coesa ed omogenea, enfatizza le responsabilità dirette dell’ex Presidente Donald Trump, della sua indisponibilità ad accettare l’esito di un voto confermato da mille verifiche e riconteggi, e del suo irresponsabile tentativo di bloccare la certificazione finale dell’elezione di Biden, aizzando la folla contro il Congresso. Quella dei repubblicani minimizza invece quanto accaduto o, in alcune rappresentazioni estreme ma tutt’altro che marginali, lo interpreta addirittura come un’ultima disperata risposta patriottica per salvare la democrazia americana dalle frodi elettorali e dalle cospirazioni globali. Nei mesi i sondaggi hanno seccamente scandito il consolidarsi di queste due narrazioni. Quelli più recenti ci dicono che solo un 20/25% degli elettori repubblicani ritiene Biden presidente legittimo, con ampie maggioranze che credono invece ciecamente alla leggenda della vittoria rubata: mito, questo, ormai consolidato e inscalfibile, oltre che test spesso indispensabile a cui deve sottoporsi chiunque voglia candidarsi a una carica elettiva dentro il partito repubblicano. Nel mentre, numerosi Stati approvano o discutono leggei che modificano le modalità di voto, cercando talora di mettere ordine a sistemi caotici, ma introducendo misure a dir poco problematiche, soprattutto rispetto ai processi di verifica e certificazione del risultato ultimo.
Su tutto si staglia ovviamente la figura di Donald Trump. Che i democratici speravano di poter inchiodare, evidenziandone le responsabilità dirette rispetto all’assalto al Congresso. E che molti repubblicani contavano di marginalizzare, in virtù dell’atteggiamento patentemente eversivo assunto dall’ex Presidente dopo la sconfitta elettorale. Un calcolo sbagliato probabilmente da entrambi, anche perché il trumpismo è ormai egemone dentro un partito che certe logiche autoritarie sembra averle pienamente interiorizzate. Le divisioni tra i democratici, magnificate dalla fragilità delle maggioranze di cui dispongono alla Camera e al Senato, e la balbettante azione di governo dell’amministrazione Biden hanno contribuito a loro volta a rivitalizzare un partito trumpian-repubblicano che dal 6 gennaio 2021 sembrava essere uscito a pezzi. Ma i cui principali rappresentanti, inclusi quelli che un anno fa presero finalmente le distanze da Trump, danzano pericolosamente sul Titanic di una crisi costituzionale e democratica dalla quale si fatica a intravedere una via d’uscita.
Il Giornale di Brescia, 6 gennaio 2021