Gli archivi nazionali (NARA) confermano che Trump avesse l’abitudine – evidentemente ereditata da decenni di affari borderline – di fare spesso a pezzettini i documenti ufficiali dopo averli consultati. Non di rado, e per evitare pericolose conseguenze legali per loro stessi, gli assistenti usavano lo scotch per rimetterli assieme e archiviarli. Chi farà ricerca in futuro si trovera quindi con fonti stropicciate e incomplete (dai NARA ci fanno sapere che alcuni di questi documenti sono semplicemente illeggibili). Altri documenti, 15 scatoloni in totale, sono stati recuperati dai NARA alla residenza di Trump a Mar-a-Lago, dove l’ex Presidente aveva ben pensato di portarseli (su questo abbiamo peraltro il precedente di Nixon e l’infinita querelle che ne consegui con i NARA).
Come però spesso accade, il vandalismo istituzionale di Trump esprime – sia pure con forme caricaturali e fattezze steroidali – un problema, quello della produzione e preservazione delle fonti documentarie, complesso e indipendente da Trump medesimo.
Un problema che, semplificando, può essere ricondotto a tre grandi questioni. La prima riguarda le modalità – non di rado volontaristiche e comunque soggette a supervisione e controlli assai limitati – di preservazione dei documenti presidenziali per come queste sono definite dalla riforma del 1978, il Presidential Records Act. La seconda è la difficoltà di gestire una mole di documenti aumentata esponenzialmente negli anni, in conseguenza sia dell’espandersi delle burocrazie (nella fattispecie federali) sia del crescere delle comunicazioni. Detta banalmente, solo una percentuale assai bassa di documenti viene preservata, archiviata e resa poi consultabile. La terza, che riemerge anche in questo ultimo affaire Trump, riguarda la natura stessa della fonte. Da tempo giravano voci sui falò di documenti avvenuti sotto la sua presidenza, tanto che nel dicembre del 2020 National Security Archive, AHA e SHAFR avevano unito le forze e fatto causa a Trump e NARA (poi ritirata dietro precise garanzie che l’historical record sarebbe stato preservato). Accanto a fonti testuali tradizionali, o a comunicazioni telefoniche anch’esse registrate, trascritte e consultabili, abbiamo però da trent’anni forme di comunicazione elettronica per le quali è immensamente complesso l’obbligo di archiviazione. La storia delle email e del server privato di Hillary Clinton ce lo ricorda bene. Per tornare a Trump, scopriamo che Kushner aveva l’abitudine di comunicare con gli interlocutori sauditi, a partire da bin Salman, attraverso messaggi Whatsapp che venivano prontamente cancellati (ma è solo un aneddoto tra i tanti).
È chiaro che il lavoro dello storico contemporaneo – la sua natura, il suo metodo, le sue stesse possibilità – sta venendo fortemente modificato da questa trasformazione delle fonti. Intendiamoci, si tratta di una trasformazione che paradossalmente potrebbe essere utile vis-à-vis a un certo grottesco feticismo documentario – quello degli archivi rivelatori e trasparenti; delle fonti singole e uniche che cambierebbero la nostra comprensione della storia – che qualche collega (per fortuna sempre meno) ancora prova a rifilarci. Feticismo che ovviamente ha sempre omesso di considerare come le fonti – dalla loro produzione alla loro archiviazione alla loro classificazione – non siano neutre (il paradosso di tale feticismo, è che combinandosi spesso in assenza di conspaevolezza storiografica, le fonti medesime diventano storiografia, ma quella è un’altra storia ancora). Ma di una trasformazione per certi aspetti radicale nondimeno si tratta.