Di emendamenti, armi e stragi

Un’altra strage. La peggiore che forse vi possa essere: quella che toglie la vita a chi, i bambini della scuola elementare di Uvalde in Texas, di quella vita aveva iniziato solo a muovere i primi passi. Il profilo del ragazzo che ha compiuto la mattanza sarà delineato con precisione nei giorni e nelle settimane a venire. Non sappiamo se, sull’immancabile disagio psichico o sociale, si siano inserite alcune delle comuni matrici di queste sparatorie di massa: razzismo, terrorismo interno o internazionale, omofobia e tanto altro. È possibile che in questo caso specifico non sia così. Ma poco importa. Perché quando si parla di armi e di stragi la questione centrale è contestuale e storica; rimanda tanto a una cultura diffusa e consolidata nel paese quanto a trasformazioni politiche più recenti.

Vi è una identità repubblicana e di frontiera fondata sull’idea, e il mito, di un’autosufficienza individuale che si deve estendere alla stessa sfera della sicurezza: nella quale i singoli sono chiamati a difendersi dalle minacce esterne ovvero da quelle di un potere politico centrale a costante rischio di deriva autoritaria. Ma vi è anche una traiettoria politica che quantomeno a livello federale ha reso sempre più difficile introdurre banali misure di disciplina delle armi da fuoco. Per giustificare tutto ciò s’invoca il secondo emendamento costituzionale del 1791: “essendo necessaria, per la sicurezza di uno Stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto del popolo di tenere e portare armi”. Emendamento all’epoca funzionale alla mobilitazione di un popolo in armi necessario per proteggere una nazione infante, fragile e priva di strutture militari permanenti. Ma che nell’ultimo mezzo secolo, nel quadro di una più generale svolta conservatrice, è stato vieppiù destoricizzato e decontestualizzato: trasformato in una sorta di feticcio che giustificherebbe, in nome di una libertà individuale sacra e senza limiti, l’assenza di qualsivoglia regolamentazione del possesso, della vendita e della circolazione di armi da fuoco. Alcuni dati lasciano senza fiato, a partire ovviamente da quelli relativi alla diffusione di queste armi negli Usa, dove si concentrano quasi la metà di quelle possedute da civili nel mondo e dove la percentuale pro-capite è superiore a 120, più del doppio rispetto al secondo classificato, lo Yemen.  

Le spiegazioni che enfatizzano le matrici storiche, culturali e sociali del peculiare rapporto con le armi degli americani colgono un pezzo di verità, ma ne omettono molte altri e rischiano spesso di risultare mistificatorie o di giustificare l’ingiustificabile. Perché la politica ha strumenti e responsabilità. Il feticcio del II emendamento si lega a precise dinamiche politiche e al loro impatto sull’interpretazione e il significato ultimo della costituzione. Il peso della lobby dei possessori di armi, la National Rifle Association (NRA), è noto e acclarato. Anche accettata l’idea che sia la libertà individuale a essere in gioco – e su quello la battaglia culturale pare essere stata vinta dalla Destra – vi sarebbero strumenti banali e pragmatici per introdurre indispensabili forme di disciplina: tracciabilità delle armi; controlli più rigorosi sulla compravendita e gli scambi alle fiere e alle vendite online; registri dei possessori; e tanto altro ancora. Provvedimenti che alcuni stati e municipalità hanno adottato. E che in parte concorrono a spiegare le macroscopiche differenze esistenti negli Usa, dove il numero di morti da arma da fuoco in stati come la Louisiana o il Mississippi è di sei/sette volte superiore a quelli del Massachussetts o del New Jersey. Dopo la terribile strage di bambini del dicembre 2012 nella scuola di Sandy Hook in Connecticut, Obama e l’allora suo-vice Biden provarono a introdurre una legislazione simile a livello federale. Il tentativo s’infranse sugli scogli dell’ostruzionismo repubblicano al Senato. Ed è assai probabile che sorte analoga attenda qualsiasi iniziativa che dovesse seguire questa ultima, terribile carneficina. 

Il Giornale di Brescia, 26 maggio 2022

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Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi