Il viaggio di Biden in Asia

Rimandato a causa del Covid e del sopraggiungere di altre priorità, il viaggio di Biden in Asia ha costituito un momento importante della diplomazia ad ampio raggio dell’amministrazione statunitense. Diplomazia, questa, i cui obiettivi erano chiari già prima dell’aggressione russa all’Ucraina, ma alla quale la guerra ha conferito un’ulteriore urgenza. 

Nel teatro dell’Asia-Pacifico il fine primario è quello di contenere l’ascesa della potenza cinese ovvero di sedarne velleità revisionistiche di un ordine regionale marcato dall’assenza di architetture di sicurezza paragonabili a quella atlantica e da spinose questioni irrisolte, a partire da Taiwan. 

Come si ottiene tale scopo? E quali strategie e politiche vanno messe in atto nei rapporti coi principali paesi dell’area? 

In estrema sintesi è possibile offrire tre risposte che il viaggio ha evidenziato e che rimandano alla sfera securitaria, a quella economica e a quella diplomatica. 

Per capacità militari, loro proiezione e rete di alleanze, nell’ambito della sicurezza gli Usa rimangono l’attore egemone in Asia, a dispetto delle ambizioni e degli investimenti cinesi. Questa egemonia passa per il rafforzamento di tali alleanze, il pieno coinvolgimento dei principali partner di Washington – Giappone e Australia su tutti – e un loro maggiore coordinamento, capace di mettere la sordina ai tanti, irrisolti antagonismi interstatuali. Nei suoi interventi pubblici, Biden ha reiteratamente sottolineato come la guerra in Ucraina non sia solo una questione europea o transatlantica. Secondo il Presidente, senza l’intervento di Usa ed Europa, che ha riaffermato la credibilità del loro deterrente militare ed esposto la fragilità russa, essa avrebbe costituito un pericolosissimo precedente. Il serrare i ranghi di un blocco atlantico nuovamente federato dalla leadership statunitense, ma nel quale si alza la soglia del contributo militare europeo, deve quindi avere come corrispettivo l’attivazione di un processo analogo nell’Asia-Pacifico.

L’egemonia securitaria statunitense si è accompagnata, nell’ultimo decennio, a quella economica di una Cina che è divenuta, per la stragrande maggioranza dei paesi dell’area, il principale partner commerciale e, spesso, la prima fonte d’investimenti stranieri. Una coabitazione egemonica complessa, questa, in cui non di rado la crescente dipendenza economica dalla Cina induceva molti stati a intensificare la loro richiesta di protezione da parte degli Usa. E una coabitazione alla quale Washington auspica gradualmente di porre termine, rilanciando processi d’integrazione regionale che escludano Pechino, accelerando politiche di monitoraggio e riduzione degli investimenti cinesi, e cooperando in un’azione che riduca presenza e centralità della Cina nelle catene transnazionali di produzione. Fondamentale, in tal senso, è il tentativo di promuovere nuovi accordi e strutture, dopo il fallimento alcuni anni fa dell’ambiziosissimo trattato TPP.

La diplomazia, infine, cerca di smussare le summenzionate tensioni interstatuali, promuovere nuove forme di cooperazione tra i principali attori regionali e, soprattutto, evitare che alcuni di questi giochino una partita ambigua, evitando di schierarsi o offrendo addirittura una sponda agli avversari degli Usa. È questo, evidentemente, il caso dell’India di Narendra Modi. Che rispetto ai rapporti con la Russia segue una politica tradizionale di supposta equidistanza, e guarda con ovvio interesse a processi di frammentazione dell’ordine globale che potrebbero darle una rinnovata centralità finanziaria e geopolitica.

Questo ultimo punto ci rivela una patente criticità del disegno bideniano. Che ambisce sì a chiamare a raccolta un fronte ampio di soggetti, spesso usando la retorica della comunità di democrazie. Ma che finisce per alimentare un’ulteriore disgregazione di un ordine globale fragile, contestato e dalla governance parziale e carente. Una disgregazione che rende ancor più difficile la necessaria risposta cooperativa a sfide collettive come quelle ambientali; e che rischia di alimentare pericolosissime forme di competizione e conflitto. 

Il Giornale di Brescia, 2 giugno 2022

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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