Kabul e le principali città conquistate dai Talebani senza colpo ferire; l’esercito e gli apparati di sicurezza afghani, addestrati e armati dagli USA e dai loro alleati oltre che numericamente superiori agli avversari, che crollano quasi senza opporre resistenza; un’evacuazione male organizzata, con scene che 45 anni più tardi riecheggiano quelle di Saigon 1975; le immagini strazianti dell’aeroporto di Kabul preso d’assalto da chi cerca di fuggire per evitare vendette e rappresaglie. Era difficile, se non impossibile, immaginare una chiusura peggiore della guerra statunitense più lunga di sempre; un’umiliazione più feroce per la superpotenza statunitense.
Con un discorso incisivo, furbo e non poco cinico, Joe Biden ha cercato di contenere il danno, politico e potenzialmente elettorale, del fiasco afghano. Non è indietreggiato di un passo e ha anzi rilanciato sulla necessità di porre termine a un intervento verso il quale una larga parte dell’opinione statunitense è critica ormai da anni e che da tempo pare aver visto venir meno le ragioni che lo determinarono. I primi tentativi di misurare l’effetto delle sue parole sembrano indicare come al di là di tutto – al di là anche dello schock suscitato dalla rapida presa di potere dei Talebani ‒ una maggioranza di americani ritenga corretta la decisione del presidente (e dia un giudizio positivo dell’accordo negoziato da Trump a inizio 2020).
Cosa ci dice tutto questo e quali possono essere appunto le implicazioni per la politica statunitense e la capacità d’azione dell’amministrazione Biden?
La prima risposta, molto banale, è che si è esaurita la spinta che sottostava alla decisione d’intervenire in Afghanistan. Una spinta, questa, nella quale convergevano due dinamiche. La prima, di periodo più lungo, era quella legata ai diritti umani e all’interventismo umanitario. Alla convinzione, cioè, che quando praticabile la comunità internazionale e il suo leader indiscusso, gli USA, avessero l’imperativo morale di (e la convenienza strategica a) intervenire, se necessario con la forza, per difendere, promuovere ed espandere alcuni diritti fondamentali ovvero per proteggere le popolazioni civili dai loro stessi governi e forze armate. Si trattava di una estensione di diritti fondamentali e, appunto, della “responsabilità di proteggere” (la famosa R2P, Responsibility to Protect) della comunità internazionale, secondo i sostenitori dell’interventismo umanitario; ovvero di una visione al meglio irrealistica e ambigua, nei suoi inevitabili doppi standard, e al peggio ipocrita e al servizio del suprematismo globale militarizzato statunitense, per i tanti critici.
Sia come sia – e entramble le letture portano con sé qualche fondamento di verità – quell’epoca apertasi con le guerre jugoslave degli anni Novanta e la lezione negativa del Ruanda, si è chiusa da tempo, screditata sia dalle sue contraddizioni sia dai suoi tanti fallimenti, ultimi quelli in Iraq e in Libia. «Ci sono tre parti, tutte ugualmente importanti, nell’operazione» in Afghanistan, «quella militare, quella diplomatica e quella umanitaria» – annunciò nell’ottobre 2001 Tony Blair, il leader che forse come nessun altro cercò di dare codificazione dottrinale al nuovo interventismo umanitario. Il terzo elemento è però progressivamente uscito di scena e da un certo momento in poi tutta la discussione si è concentrata sull’intreccio tra la diplomazia e le armi.
Se all’intervento statunitense in Afghanistan è mancato un contesto – quello della “guerra umanitaria” ‒ delegittimato e non più capace di generare consenso interno e internazionale, si è gradualmente spento anche il secondo elemento che lo aveva determinato e giustificato: l’11 settembre e la necessità di darvi risposta. Da un lato – e Biden su questo ha molto calcato la mano – gli obiettivi pratici immediati sono stati ottenuti: la rete di basi e infrastrutture di al-Qaida smantellata; la sua leadership, a partire da Bin Laden, decapitata; il legame tra Talebani e terrorismo, si crede e auspica, finalmente reciso. Dall’altro la dimensione più ambiziosa dell’intervento, quella di promuovere una radicale trasformazione politica e culturale dell’Afghanistan funzionale al consolidamento e all’estensione dell’egemonia statunitense, è stata rapidamente riposta nel cassetto, vittima della sua irrealistica hybris, degli assunti – operativi e concettuali – molto ideologici che vi sottostavano, e, anche, della crescente indisponibilità degli americani a farsi carico dei costi materiali e ancor più umani dell’intervento.
Il legame tra intervento e politica interna statunitense è stato da subito strettissimo. Come si è detto, è un’equazione complessa e a più variabili quella che ha determinato l’intervento, così come i suoi tempi e le sue forme. Tra queste variabili vi sono stati, come è inevitabile che sia in una democrazia, anche calcoli politici ed elettorali. Senza i quali non capiremmo le scelte di Bush, la retorica di Obama, che in un primo tempo ha provato a contrapporre la guerra giusta e necessaria in Afghanistan a quella futile e stupida in Iraq, il dialogo coi Talebani di Trump e oggi la posizione di Biden. Tutti i quattro presidenti che hanno guidato il Paese durante i 20 anni di guerra sono stati condizionati da questa variabile ovvero hanno modulato le loro decisioni anche in funzione di essa. E ciò vale ovviamente per Biden, che da senatore sostenne non solo l’intervento in Afghanistan ma anche quello – assai più controverso – in Iraq, il cui pedigree di liberal interventista è apparso a lungo inscalfibile, ma che ha rapidamente maturato una forte disillusione verso l’uso dello strumento militare, si è opposto all’escalation promossa iniziamente da Obama, è stato scettico nei confronti della guerra in Libia del 2011 e ha esplicitamente avversato un possibile coinvolgimento statunitense in quella civile siriana due anni più tardi. Biden sa bene che la linea del disimpegno e del ritiro è sostenuta da una larga maggioranza negli USA; e sa che anche su questo – sul fallimento delle guerre americane del XXI secolo – Trump è riuscito a costruire le sue fortune, con il suo messaggio rozzamente nazionalista e unilateralista.
Quel che non si poteva però permettere, Biden, era che l’Afghanistan – e il fiasco statunitense – tornasse così brutalmente sotto i riflettori. Erano gli elicotteri sul tetto dell’ambasciata statunitense o il caos all’aeroporto di Kabul. L’impreparazione con la quale gli USA si sono fatti trovare lascia francamente sconcertati. E quasi certamente nelle settimane e nei mesi a venire inizieranno a cadere delle teste tra chi negli apparati d’intelligence e di sicurezza avrebbe dovuto offrire le stime e i piani per una ritirata ordinata e il più possibile silenziosa e invisibile. Ora però l’Afghanistan rientra prepotentemente nella politica americana; nel farlo pone un evidente pericolo per Biden e i democratici. Che possono essere accusati di averlo appunto “perso” l’Afghanistan; o che potrebbero trovarsi a dover gestire qualcosa di politicamente controverso e complesso, dalla questione dei profughi (destinata a innescarsi su di una miccia, quella dell’immigrazione, già accesa e pericolosa) o dal riaffiorare di organizzazioni terroristiche in un Afghanistan instabile e a guerra civile permanente. E questi sono oggi per Biden il pericolo e la preoccupazione più grandi, ben più del futuro degli afghani (e, ancor più, delle afghane) sotto un nuovo, brutale regime talebano.
Pubblicato sull’Atlante Treccani il 24 agosto 2021
https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Joe_Biden_piu_lunga_guerra_americana.html