Come sempre non esistono soluzioni ideali o perfette. Come sempre più spesso, anche su DAD, ibrido e presenza tendono invece a formarsi campi contrapposti, basati su visioni molto nette e trasparenti di ciò che chiaro non è affatto. Noi abbiamo una percentuale di studenti, non maggioritaria ma tutt’altro che irrilevante, che non può seguire i corsi in presenza: stranieri che non possono essere in Francia; studenti che per problemi di salute devono seguire da casa. La cosa più logica sarebbe fare tutti gli insegnamenti a distanza – che la DAD impone adattamenti forti nelle modalità e nei tempi d’insegnamento – e programmare attività integrative di vario tipo per chi è invece in presenza. Ma a prescindere dal fatto che questo imporrebbe un ulteriore surplus di lavoro per il corpo docente, famiglie, studenti e non pochi colleghi spingono invece per una presenza che obbliga quindi a un insegnamento “ibrido”. Lo fanno – soprattutto gli studenti – spinti da una comprensibile esigenza di socialità che è parte integrante e fondamentale dell’esperienza universitaria. E però quel che ne esce fuori è forse la peggior forma d’insegnamento possibile: in presenza, tutti con le mascherine, con alcuni studenti collegati online. Lo è da un punto di vista strettamente didattico, che alla fine non vi è alcun adattamento all’insegnamento a distanza; lo è in termini di equità, che si penalizza e discrimina chi in aula non può andare; lo è in termini banalmente pratici, perché tra mascherine che rendono difficile sentirsi e inevitabili inghippi tecnologici si finisce spesso per perdere non poco tempo. Forse è l’unico compromesso possibile. Ma è un bel catch-22 e invece di fare le crociate sarebbe buona cosa lo riconoscessimo