Difficile trovare dei vincitori in questa vicenda dei sottomarini che l’Australia ha deciso di acquistare dagli Usa, abbandonando l’accordo stipulato cinque anni fa con la Francia. Una scelta, quella di Canberra, che ha provocato un vero terremoto nel contesto internazionale, con la Cina che denuncia l’ulteriore intensificazione delle tensioni nel Pacifico e Parigi che protesta veementemente, e con un gesto senza precedenti richiama per consultazioni i suoi ambasciatori in Australia e negli Usa.
Non vince l’Australia, che per i sottomarini diesel francesi ha già speso più di un miliardo di dollari e sulla cui capacità di gestire e mantenere quelli statunitensi a propulsione nucleare gli esperti nutrono ben più di un dubbio. Non vince la Cina, la cui politica spregiudicata nell’Indo-Pacifico ha infine concorso ad alimentare una pericolosissima corsa agli armamenti. Non vincono gli Usa, che scatenano una profonda crisi diplomatica con un importante alleato come la Francia, destinata a lasciare ferite profonde dentro relazioni transatlantiche di loro già deteriorate. Non vince infine la Francia, che subisce una pesantissima umiliazione – di fatto scopre solo all’ultimo minuto di questo nuovo accordo – e vede messo in discussione uno dei pilastri della sua politica estera e di sicurezza: un’azione aggressiva e non di rado spregiudicata di esportazione di armamenti e know-how militare funzionale a estendere la sua influenza e finanziare la sua ambiziosa politica di difesa. Francia che cerca di mitigare il danno, esasperando lo scontro con gli Usa, anche per occultare le tante magagne che hanno contribuito al tracollo dell’accordo con l’Australia del 2016. Dall’esplosione dei suoi costi (praticamente raddoppiati e che nelle previsioni ultime superavano i 50 miliardi di dollari) ai tempi di consegna dei sottomarini, già estesi oltre il 2035; da problemi di cybersicurezza sui quali la compagnia francese Naval Group responsabile per la costruzione dei sommergibili non dava forti garanzie alle promesse già disattese sul numero di posti di lavoro che sarebbero stati creati in Australia.
Se la Francia, e la sua politica estera e industriale, ne escono male, gli Usa ne escono però malissimo. Lo sgarbo diplomatico è grave e stridente con la retorica e le promesse di Biden di voler rilanciare la partnership euro-americana. L’enfasi sulla sfida con la Cina contribuisce non solo a un ulteriore innalzamento delle tensioni, ma anche ad acuire il rischio di una proliferazione nucleare che non è nell’interesse di nessuno. Il coinvolgimento, ancillare e subalterno, del Regno Unito in un’alleanza a tre con Usa e Australia – l’AUKUS – concorre a sua volta ad acuire le tensioni con Parigi e, in una certa misura, col resto dell’Europa. Europa che, a partire dalla Germania, guarda spesso con diffidenza alle ambizioni francesi e alla dissimulata ambizione di Parigi di usare la sua capacità militare per svolgere un ruolo di guida dentro la UE; ma che non può che essere scioccata dal ruvido unilateralismo statunitense che, sottolinea giustamente il Ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, ci si poteva aspettare da Trump, non certo da Biden.
Non ci sono vincitori, dunque. E ciò ci mostra una volta ancora tutta la fragilità di un ordine internazionale dove non esistono né un egemone capace d’imporre a tutti regole condivise né un sistema di governance in grado di prevenire pericolosissime escalation come quella cui stiamo assistendo. E dove anche ordini parziali e regionali – come quelli atlantico ed europeo – mostrano una volta di più la loro obsolescenza e fragilità.
Il Giornale di Brescia, 19 settembre 2021