Il piano d’investimenti infrastrutturali. Fatto da Biden e non da Trump

Il benedetto piano d’investimenti infrastrutturali di Joe Biden è infine legge. Legge almeno in parte bipartisan, che l’hanno votata 19 senatori e 13 deputati repubblicani. Già vittime, però, di un’aggressiva campagna, con la pasdaran trumpiana Marjorie Taylor Greene (l’imbarazzante neo-deputata Qanoniana della Georgia) che li definisce “traditori” e l’ex Presidente pronto a mobilitare la sua base e a lanciare delle sfide nelle prossime primarie repubblicane.

La legge prevede una spesa complessiva di 1200 miliardi di dollari. Il 40% in meno rispetto alla proposta iniziale di Biden. Ma comunque il programma d’investimenti federali in infrastrutture più ambizioso (e costoso) dai tempi di Eisenhower e del suo famoso Highway Act del 1956. Infrastutture – federali e statali – fattesi negli anni grottescamente obsolete, come continuamente denunciato dall’associazione degli ingegneri civili e come noto a chiunque abbia un minimo di familiarità con gli Stati Uniti. Strade dissestate; ponti traballanti e insicuri; pali di legno piegati da decine di cavi di utilities spesso dismesse;  una rete ferroviaria che anche nelle sue tratte strategiche e più utilizzate, come l’Amtrak del corridoio DC-Boston, fa sembrare moderno e veloce l’interregionale Ancona – Bologna …. Una tassa sull’efficienza del paese e della sua economia; un bene pubblico pesantemente deficitario; un fattore ulteriore di diseguaglianza, che ad essere penalizzate (si pensi solo alla distribuzione a macchia di leopardo della fibra) sono spesso aree povere, rurali ed exurbane, in un circolo vizioso che perpetua e accentua differenze di crescita, reddito e possibilità (quella dynamism divide che tanto incide anche sulle scelte di voto, come abbiamo ben visto negli ultimi due cicli presidenziali).

Come si articolano i 1200 miliardi del piano di Biden? Per semplicità possiamo scomporli in sei voci primarie:

  1. Investimenti tradizionali di mantenimento e miglioramente di strade e ponti
  2. Investimenti per il potenziamento dei trasporti pubblici a partire dalle ferrovie, per le quali si chiedono 66miliardi, la spesa più ampia di sempre
  3. Investimenti in porti e aeroporti
  4. Investimenti per potenziare il sistema idrico (fonte di tanti, terribili scandali) e la rete elettrica
  5. Investimenti per potenziare ed estendere fibra e banda larga (con tutta una serie di vincoli per i provider destinatari di contributi pubblici, obbligati a garantire prezzi agevolati)
  6. 15 miliardi di dollari per favorire lo sviluppo e la diffusione di veicoli elettrici, pubblici (autobus, a partire da quelli scolastici, e traghetti) e privati

I fondi saranno dirottati verso tutti i 50 stati dell’Unione ed è facile immaginare quali scambi e compromessi ne hanno determinato la versione finale (il buon McConnell, che ha votato a favore del piano, se ne è già appropriato, celebrandolo come una “manna di Dio” per il suo Kentucky). E ovviamente resta il problema della copertura finanziaria e dell’impatto sul deficit, con il Congressional Budget Office che contesta le stime – ottimistiche e presumibilmente irrealistiche – prodotte dal Senato e dall’amministrazione, dettate in larga misura dall’impossibilità di alzare anche marginalmente le tasse per poter ottenere il sostegno di almeno qualche repubblicano.

Mi è capitato spesso in questi mesi e in queste settimane di criticare Biden e i democratici ovvero di sottolinearne debolezze e contraddizioni. Che hanno condizionato l’ottenimento anche di questo risultato e tanto spiegano del crollo del tasso di approvazione dell’operato di Biden che sta pericolosamente avvicinandosi a livelli trumpiani. In teoria, gli investimenti in infrastrutture raccolgono un sostegno ampio e trasversale (addirittura 1/3 degli elettori repubblicani appoggiavano il piano qualche mese fa). E però ci vorranno anni a realizzarli e a renderne visibili gli effetti. Nell’America divisa e iper-polarizzata d’oggi difficilmente sposteranno voti, a partire dal mid-term 2022.

Il piano ci ricorda però la differenza tra il parlare e il fare; tra la demagogia e i risultati. Sulle infrastrutture Trump aveva promesso investimenti mirabolanti, salvo non fare letteralmente nulla da Presidente (e rilanciare le sue promesse solo in concomitanza con la campagna elettorale del 2020). Come peraltro su altri ambiti cruciali, a partire da una sanità che negli anni di Trump ha visto tornare a salire il numero di americani privi di qualsivoglia copertura. Biden porta a casa un qualcosa che potrebbe essere non poco. E comunque la si pensi, non è una differenza marginale rispetto al suo predecessore.

Di Mario Del Pero

Professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

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