Non poteva (né doveva) sortire dei risultati concreti immediati, il summit virtuale tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, Xi Jinpin e Joe Biden, che ha avuto luogo nella notte tra lunedì e martedì. Serviva piuttosto per stemperare le tensioni tra Pechino e Washington e per dare un’investitura politica e pubblica a un dialogo bilaterale nel quale, sottotraccia ma in modo intenso, sono stati impegnati diversi gruppi di lavoro sino-statunitensi in queste ultime settimane. Se questo lavoro abbia sortito dei frutti, e se questo summit abbia invertito una spirale fattasi potenzialmente molto pericolosa, lo scopriremo solo nei mesi a venire. Quel che ci ha mostrato una volta di più è quanto indispensabile, contraddittoria e pericolosa sia la relazione tra Cina e Stati Uniti oggi.
Indispensabile, perché si tratta delle due potenze superiori dell’ordine internazionale, la cui collaborazione è necessaria su qualsiasi dossier e rispetto a qualsivoglia proposta di aggiornamento degli strumenti della governance globale. Lo abbiamo visto bene anche nella COP 26 di Glasgow dove l’impasse iniziale è stata rotta dall’accordo a sorpresa tra Cina e Stati Uniti. E d’altronde sull’ambiente e il cambiamento climatico nessuna seria politica globale è immaginabile senza un impegno fattivo dei due giganti dell’ordine internazionale corrente (che da soli producono quasi la metà delle emissioni nocive mondiali) e la loro disponibilità a cooperare, accettando dei compromessi. Con tutti i loro evidenti limiti, gli accordi di Parigi (2015) e Glasgow (2021) ce lo hanno mostrato bene, come del resto gli anni di disimpegno unilaterale statunitense sotto Trump. L’incontro tra Biden e Xi si è peraltro soffermato su altre questioni fondamentali – il nucleare iraniano, la sfida nordcoreana, le regole del commercio globale – per le quali una qualche collaborazione tra Cina e Stati Uniti è propedeutica a tutte le possibili soluzioni di cui si discute.
Quello tra Pechino e Washington è però anche un rapporto marcato da profonde contraddizioni. Innanzitutto perché vi convivono in modo molto instabile forme profondissime di collaborazione ed elementi visibili e ostentati di competizione. Da un punto di vista strettamente teorico dovrebbe essere possibile distinguere i diversi ambiti. E infatti le formule si sprecano nel descrivere questa miscela di cooperazione e competitizione (in alcuni recenti documenti della UE, ad esempio, la Cina viene definita al tempo stesso come “un partner negoziale”, un “concorrente economico” e “un rivale sistemico”). In realtà, scomporre questi ambiti con chiarezza, e promuovere politiche conseguenti, è quasi impossibile, non ultimo perché l’interdipendenza – la condizione di mutua dipendenza tra i diversi attori di un sistema internazionale altamente integrato – rende molto difficile separare gli spazi di cooperazione e quelli di competizione, e ciò permette a entrambi di sfruttare quelli che offrono uno strumento di pressione sulla controparte. Perché mai la Cina dovrebbe cooperare sull’ambiente se gli Usa adottano posizioni punitive sui suoi investimenti esteri? Perché gli Usa dovrebbero evitare di limitare questi investimenti se la Cina cerca di mettere in discussione la stabilità dell’ordine regionale nell’Asia-Pacifico?
E questo ci porta all’ultimo punto: la natura estremamente pericolosa di questa relazione. Da un lato, e come abbiamo visto in questi ultimi mesi, essa sembra essere sempre esposta al ‘dilemma della sicurezza’: al rischio di una spirale fuori controllo generata da azioni che una parte intraprende concependole come difensive e la controparte percepisce invece come ostili e minacciose. Dall’altro esistono ambiti, su tutti Taiwan, dove le mediazioni e i compromessi paiono essere sempre più fragili. Anche perché ad alimentare la dimensione competitiva e antagonistica della relazione vi sono non di rado spinte interne – ideologiche, politiche e, nel caso degli Usa, elettorali – fattesi oggi sempre più forti.
Il Giornale di Brescia, 18 novembre 2021